La prima impressione che i The Hold Steady danno, è quella di una band di ragazzi che suona  per il puro gusto di divertirsi e trascorrere  un po’ di  tempo assieme. Il modo in cui la loro musica è rifinita è talmente “educato”  da sconfinare in una sorta di bon ton rockettaro.

Il loro sesto album, Teeth Dreams, è paragonabile a Bud Spencer: cattivo e pericoloso per il suo digrignare i denti, ma buono come un orso non affamato  quando si tratta di andare al sodo. La matrice che li anima, anche questa volta, è palesemente rock; talmente rock da sembrare un compito troppo ben fatto per risultare originale. Non ci sono contaminazioni tra i generi musicali, che rimangono perfettamente incasellati ognuno nella propria canzone; non ci sono guizzi geniali, non ci sono innovazioni. Hanno seguito alla lettera la traccia del tema: hanno composto un album con dieci canzoni che non scuotono e che possono emozionare solo i fans più affezionati.

La canzone introduttiva, Spinners, è interessante, con riff selvatici e molto incalzanti, che rimangono in testa perché deliziano con una velocità entusiasta e quasi incontenibile; The Only Thing non lascia il segno, The Ambassador potrebbe riportarci alla mente certe nostalgie folk, On with the business potrebbe offenderci con una potenza espressiva troppo irruente e poco incisiva. Big Cig vorrebbe risollevare le sorti dell’ insieme con un indie-rock più moderno, ma rimane comunque insufficiente per conquistare; Wait a While è più genuina ma non indimenticabile e Runner’s High non l’aiuta, anche se invoca alla lontana gli Dei dell’ olimpo rock’n’roll.
Almost Everything invece sorprende: è dolce, ispirata, sottile, evocativa. E’ un racconto appassionato che delizia alla stregua delle sonorità di Shawn Mullins, e Oaks, che la segue, mantiene intatto l’incantesimo, concludendo l’album.

E’ strana questa sesta prova della band di New York; è ben confezionata, forse troppo. E’ energica, fedele ai modelli rock a cui si ispira, non sbaglia ma al tempo stesso non osa. E’ un esercizio di stile indiscutibile, che potrebbe accattivare, ma che non sempre potrebbe conquistare. Il tentativo – vano – di dare l’idea di grinta garage e di solidità folk svanisce in canzoni che non lasciano il segno perché troppo timorose di spiccare il volo. Gli Hold Steady hanno dato il meglio nella fragilità di tracce più introspettive – come le ultime due – e hanno semplicemente “fatto i compiti” con le rimanenti.
Non osano, non innovano, non spiazzano ma nemmeno commettono peccato.
Sono nel Purgatorio; non abbastanza in alto per conquistare il Paradiso, ma nemmeno pessimi quanto basta per finire all’ Inferno. Sono sospesi nell’ etere, tra la luce e il buio. Alcuni potrebbero dire “nel mezzo c’è la virtù”. Ma è davvero della virtù che la musica ha bisogno?

Tracce Consigliate: Almost Everything, Oaks