Tra la necessità di innovarsi e quella di mantenere uno stile che sia riconoscibile si tessono le storie della maggior parte dei musicisti che hanno solcato il pianeta. Muoversi tra questi due mondi, nei quali il successo o il totale fallimento sono spesso separati da un filo dello spessore di quello di una tela di ragno. È complesso: c’è chi riesce nell’impresa arrivando a risultati ineguagliabili, così come ha fatto David Bowie con il suo album d’addio, c’è chi fallisce come dimostrano i Coldplay ed i Muse anno dopo anno.
Variabile costante in ogni carriera d’artista, Innovazione va domata, così come i The Growlers avevano imbrigliato il proprio sound in un’equazione matematica che assicurava loro di colpire il bersaglio uscita dopo uscita. Nonostante in Chinese Fountain la band californiana si fosse data una ripulita, la voce grattante di Brook Nielsen, unita a quelle sonorità fresche ed irresistibili ed all’abilità speciale nella creazione di universi definiti tramite i propri testi, li confermavano come una band carismatica e ispirata. A City Club è preceduto un tour massiccio negli States, la band aveva inoltre calcato la mano sulla propria natura à la belle eccentrique, dandosi un’aria decisamente più patinata. A ciò si è aggiunta la collaborazione di Julian Casablancas alla title-track, il buon vecchio Julian.

In che cosa si traduce tutto ciò: in un album che sicuramente mantiene gli elementi distintivi del sound della band, la voce di Nielsen non la riesce a rovinare nemmeno Casablancas, ma complessivamente edulcorato a livelli distanti dal subtle-blues al quale la band ci aveva abituato: quelle sonorità continuano a risplendere in tracce com Night Ride, dove le tastiere mantengono quelle sfumature metropolitane, la linea di basso sembra colorare il pezzo di luci al neon con le sue note a tratti quasi dissonanti, soprattutto nel ritornello. 
Prendiamo invece City Club dove la mano del producer si riconosce nello stacco del refrain, e dove le parti strumentali spaziano tra il funky e l’esperienza degli Strokes. 
In Dope on a Rope, le chitarre sembrano quelle di qualche pezzo degli Smiths, le sonorità elettroniche sembrano giustapposte per mantenere una qualche sorta di fil-rouge nel corso delle riproduzione e lo stacco musicale, più che focalizzare le attenzioni su risultati sonori ammirevoli, le concentra sull’impressione di già sentito. 
L’attacco di When You Were Made rimanda ad Hung at Heart, le tastiere in secondo piano aggiungono una texture interessante al pezzo, mentre quelle in primo piano rovinano leggermente l’atmosfera. Lo stesso vale per Rubber Bone dove la scelta ritmica del cowbell è catchy, ma viene annichilita dall’uso massiccio di riempitivi elettronici e chorus.

City Club sembra un disco che delle premesse di Chinese Fountain vuole fare qualcosa di più corposo e stratificato, rendendolo più accattivante, anche se spesso ciò porta a risultati sonori che sembrano distanziarsi dalla dirittezza a livello di impatto stilistico-emotivo, anche se quello attuale è decisamente molto ballabile, i The Growlers sembrano aver perso un po’ di quella rudezza che li faceva spiccare tra tanti.

Tracce consigliate: Night Ride