You don’t know who you are
When you’re living inside of a replica
Safe inside where you are

Non sembrano casuali queste parole, tratte dal ritornello di In My Pocket, ottava traccia di Volcano, l’atteso ritorno dei Temples. L’album d’esordio della band di Kettering, denotava uno smisurato amore per la psichedelia pop anni ’60, in particolar modo per Byrds e Zombies, riuscendo ad amalgamare perfettamente sound vintage e melodie orecchiabili,  tanto da essere acclamato sia dalla stampa britannica che da istituzioni musicali come Johnny Marr e Noel Gallagher (di solito parecchio restio a dispensare elogi ad artisti contemporanei). I Nostri, dal canto loro, anziché adagiarsi sugli allori hanno lavorato parecchio in questi anni, in particolare sulle performance dal vivo (loro tallone d’Achille degli esordi) e sul suono che, pur se gradevolissimo, appariva datato e poco personale specialmente se comparato con altri attori del panorama psichedelico attuale.

Volcano, autoprodotto nel medesimo studio casalingo di Sun Structures, deve il suo nome a diverse fonti d’ispirazione del collettivo britannico: a un documentario di Werner Herzog, alle pendici dell’Etna (visitata in occasione dell’Ypsigrock del 2015 – del resto la band è grande estimatrice di Battiato), ai Pink Floyd di Pompei e a quel flusso di pensieri e di dubbi che attanaglia qualsiasi essere umano alle soglie dei trent’anni. Dal punto di vista sonoro i Temples deviano la loro direzione in un synth pop elettronico che non tradisce le loro origini ma che a volte le rimodella, a volte le ammorbidisce o semplicemente li proietta in altre dimensioni. I primi tre singoli mettono in evidenza quest’ultima tendenza, in particolar modo Certainty vede le chitarre cedere il passo ai synth di Adam Smith, mentre il falsetto di James Edward Bagshaw diventa più personale e convinto. La trasformazione sonora è più compiuta e matura in Strange Or Be Forgotten, accompagnato da un video dove la band ribadisce con convinzione che è possibile evolversi musicalmente senza cercare a tutti i costi di inseguire i più fugaci trend del momento, semplicemente coniugando ricerca e autenticità. In altri brani la svolta elettronica è solo abbozzata: In My Pocket parte come una ballad acustica scritta da un novello Bolan per poi evolversi nel ritornello nei suoni futuristici dei Temples 2.0. Lo stesso dicasi per le super catchy Roman God Like Man e Oh The Saviour, canzoni che potevano benissimo figurare in Sun Structures a cui è stato rifatto il look. I Wanna Be Your Mirror,  introdotta da un epico giro di organo, sta a cavallo tra i vecchi e i nuovi Temples, mentre la dimensione dreamy dell’album viene esaltata da Celebration, con un crescendo finale esplosivo. Born Into The Sunset, potrebbe rappresentare un nuovo punto di svolta per la band, una morbida ballad elettronica e potenziale hit estiva.

Pur essendo molto eclettico e ben prodotto (ma certamente meno spontaneo dell’esordio), Volcano rappresenta una fase transitoria per i Temples e non già un punto di arrivo. Se in Sun Structures gli elementi elettronici erano un semplice orpello da incastrare nei brani per ottenere determinati effetti, qui assurgono al ruolo di impalcatura sonora, pur senza modificare in modo sostanziale la scrittura e il modus operandi della band. A differenza dei Tame Impala, che con Currents hanno dato una sterzata decisiva alla loro carriera, partorendo un capolavoro contemporaneo, James Edward & soci si devono accontentare in questo caso di una semplice uscita dalla loro comfort zone psichedelica, con il risultato di aver raggiunto una maturità sonora ben definita. Il prossimo passo sarà quello di far seguire ai rinnovati suoni, una scrittura degna del loro talento, capace di ridefinire compiutamente un genere dove si muovono già con maestria e personalità.

Tracce consigliate: Strange Or Be Forgotten,  Celebration