Sciogliersi dai vincoli del mito, della glorificazione e dell’idolatria è possibile. Parafrasando un celebre brano della letteratura inglese, di qualcosa è importante che si parli, che sia in positivo o meno; stimolando tale logica a compiere un passo successivo, ancor più fondamentale è che, di qualcosa, si parli realisticamente, erigendo una barriera isolante dal comune giudizio e dai complimenti consuetudinari, reiterati sempre identici nel corso del tempo, destinati a consolidarsi e divenire regola tacitamente condivisa e accettata.

Il nome di St. Vincent rimbalza più assiduamente per cronache di costume, che per memoria di talento ed estro camaleontico. Lì dove il personaggio supera la persona, verosimilmente l’interpretazione non supera l’interprete, offuscati i virtuosismi coscienziosamente costruiti da una coltre di succulenta vita privata, offerta a vantaggio del giornalismo prostituito. Non le liaisons dangereuses intrattenute, non l’orientamento sessuale possono considerarsi fattori determinanti per l’evoluzione di un percorso professionale, deviando il centro di focalizzazione da quell’originalità artistica ed intellettuale che quattro produzioni precedenti hanno strutturato.

È, dunque, dal lato obiettivo della lente di ingrandimento che si deve passare al vaglio Masseduction, come risultato della Annie Clark artista e non paniere d’oro dei tabloid, eclettica figura estrattasi dalla nicchia di genere e non icona angelica cui, musicalmente, tutto sia da concedersi. Anzitutto, laddove l’accento non venga primariamente posto su liriche e composizione, ma sullo strategico advertisement orchestrato attorno alla presentazione dell’album, sui nomi celebri che ne integrano tracklist e ringraziamenti finali di realizzazione, sull’estetica lampeggiante di un artwork controverso, ecco che il comodo intento di mascherare un elaborato debole come baluardo di innovazione e acume critico-sociale si concretizza. Per chi, a furor di popolo ed assensi, si sia scomodata l’attribuzione di genialità (si veda la canonizzazione post-Bowiana), temibile e contraddittorio si staglia l’incombere della macroscopica classificazione nel pop, tanto per la commerciabilità del prodotto partorito, quanto per sua intelligibilità e facile accesso.

Un’opera pop può vantarsi d’eloquenza proprio nella destrezza di conversione di un messaggio particolare in universale, semplificazione della sovrastruttura in elementi singoli e facilmente assemblabili. Sornionamente, tuttavia, ciò può costituire una scappatoia funzionale per un sovrano che rimane monarca assoluto, pur se illuminato: “Tutto per il popolo, niente attraverso il popolo”, introducendo esigui dettagli di novità rispetto al passato e banalizzando sfumature dell’io altrimenti più delicatamente maneggiabili, accordandosi la benevolenza della maggioranza e di quella stessa critica che, dinanzi ad imprese ben più ricercate e cerebrali, aveva gridato al capolavoro. Ecco che, progressivamente, convinzioni dipinte su una facciata barocca si sgretolano, lasciandone intravedere il più grezzo scheletro di mattoni: la provocazione lascia il posto al largo consumo; il riferimento di copertina all’oggettivazione femminile nell’arte visuale si rivela abile espediente attraverso cui il sesso non è sessista, se in technicolor; l’esperienza estetica impoverisce il ragionamento lucido, che scoperchia gli allori agiografici di una -letteralmente – santa icona Clark su cui il disco poggia e grazie ai quali si salva.

L’apparato melodico non primeggia in organicità, alternando frammentariamente picchi di euforia sintetizzata a sentimentali ballate (New York, Happy Birthday, Johnny) – carenti, però, d’emozionalità struggente, qualità quanto meno prospettabile da un lavoro intensamente incentrato sulla fragilità interiore e successiva all’abbandono di un amore trascorso. Percepibile è il tentativo di elevare un fallimento personale nella catarsi creativa, mirata ad esorcizzarne la sofferenza in direzione di un purificato successo: calcando la mano, la riuscita non è completa, perché forzatamente sospinta. L’ossessività di ritmi elettronici cantilenanti, condotti all’estremo, naufraga nell’assenza di una rotta scandita svelando che quel che si vuol vendere come avanguardia, altro non è che confusione (Pills); tanto dominante è il disordine sonoro quanto, paradossalmente, una ripetitività danzereccia superflua, priva di quel guizzo di atipicità che ingiustamente sacrifica chitarre a vantaggio di trascurabili beat.

Più idee non bene sviluppate singolarmente si incastrano a fatica senza colmare gli spazi, e non è ad un’assenza di riflessione alla base che tale responsabilità deve addebitarsi. Ogni dettaglio della messa in scena di Masseduction è frutto di un’operazione mediatica per cui nulla, dal titolo al codice di abbigliamento, è fortuito e spontaneo: a mancare, sostanzialmente, è l’opera in sé, la sua potenza naturale, non del tutto all’altezza di un pubblico tenuto al dovere di cedere al disincanto e alla divinizzazione, riesumando la pretesa di autenticità di gusto stilistico e sperimentazione, contro la macchinosità di una protagonista che azzarda un ruolo a lei non aderente.

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