Sì certo qua siamo tutti bravi a parlare a dire che questo disco è una bomba di comparsate di grande spessore di grande rilievo di rovinosa ma alquanto seducente careggiata già battuta dai gemelli Cocteau e incredibilmente ripresa da lui: il piccolo e defilato Simon, il quale non ha fatto altro, in tutti questi anni, che relegare la sua vita a una defilata etichetta di provincia, la Bella Union, producendo così sì qualche musicista in gamba, si non dico no, ma tenendosi comunque a un bel passo defilato di distanza da quelle che si possono definire le “belle fotografie”.

Cazzate caro il mio Rolling Stone. Volete sapere la verità? La verità è che Simon Raymonde non era affatto defilato, non si teneva a lato dei grandi riflettori che erano luce per il resto dei Cocteau Twins. I Cocteau Twins erano al buio. Da quel pezzo. Si quell’altro aveva fatto qualche disco solista, ma fondamentalmente era tutto bello che morto, andato, fiut, caput. E adesso facciamo i carini e i simpatici dicendo che era defilato e che finalmente ha fatto un disco con una bella ragazza che si chiama Stephanie Dosen e che ricorda tanto Elizabeth Frazer oh che carini c’è anche quello dei Radiohead. No. Non è giusto. Non è giusto per lo stesso Simon, proprio non se lo merita. Volete sapere la verità? La verità è che fra due mesi, che dico?, un mese, uno soltanto e nessuno parlerà di questo disco. Volete sapere la verità? La verità è che nessuno si è chiesto perché dopo vent’anni di assenza dalla scena della musica Simon abbia deciso di fare un disco.

CAPITOLO II – Moon

Nessuno di voi si è chiesto cosa Snowbird voglia dire. Contrariamente da quanto la vostra famiglia e la pletora di vostri amici sia pronta a sostenere, l’intreccio non si scioglie semplicemente nella formula “uccello della neve”. Che se così fosse l’appellativo “brutta band” sarebbe, a detta di tutti, azzeccato. Se visitate la pagina di disambiguazione di Wikipedia alla parola “snowbird”, noterete che il riferimento è a una moltitudine di situazioni, tra le quali, quella cha fa al caso nostro, si riferisce a svariate persone residenti nelle parti più a nord degli U.S.A. che, nel periodo invernale, migrano in posti più caldi e accoglienti come il Messico. La vicenda che contrassegna questa band è bene o male qualcosa di analogo: come tutti i pessimi dischi che si rispettino, la poco celata storia d’amore fra i componenti della band finisce per essere il punto focale attorno al quale gira tutto il resto, con in fondo il disco. Non mi definisco un giornalista d’avanguardia e non mi sento di porre fine alla storia d’amore per parlare del disco.

Stephanie Dosen è una giovane cantautrice americana scritturata dalla Bella Union per il suo disco solista A Lily For The Spectre, lei per l’occasione si sente di chiedere a Simon Raymonde una mano per la produzione. Lui accetta, viene plagiato dal fascino di lei e se ne innamora perdutamente. Lei si trasferisce dagli U.S.A. per vivere con lui, l’amore li abbraccia tutto il giorno. Poi il permesso di soggiorno di lei scade ed è costretta ad abbandonare Londra e la sua nuova fiamma per tornare negli States. Lui ne soffre molto, cullato dalla luna, la sera, di ritorno a casa, getta il suo dolore sui tasti bianchi del pianoforte. Decide di condividere il suo dolore con lei, così ogni sera per 11 giorni le manda una mail con allegato un pezzo al pianoforte. Lei, per 11 giorni, ogni mattina, le risponde rimandandoli indietro il pezzo con la sua voce sovraincisa.

CAPITOLO III – Moon II

Il risultato, l’avrete capito, è questo cavolo di LP.
All’interno si possono trovare incursioni, tra batteristi e chitarristi, che fanno sì che si parli di questo disco, coi quali si è rapportato alla stessa maniera, gli chiedeva se erano intenzionati ad aggiungere “quel che” a determinate tracce e, se sì, inviava loro il pezzo trovandoselo alla mattina con le aggiunte richieste.

Il disco è un insieme di ballate piano e voce con inevitabili riferimenti ai Cocteau Twins, non tanto voluti ma perché effettivamente riconosciamo che Simon non ha suonato nient’altro che quello nella sua vita. Il disco si presenta piatto, senza grandi variazioni dal mood iniziale, che finisce poi per andare a calare facendo ricordare nel primo pezzo, “I heard the owl calling my name”, l’esempio migliore che questo disco può farci venire in mente. La voce di lei, debitrice alla Frazer il giusto, ma unicamente perché ha vent’anni meno di lei e ascoltava i Cocteau Twins al liceo, si stende sopra il pianoforte come una coperta d’inverno con tutta quella coltre di riverberi che fa sì che questo disco lo si definisca dream pop; non è un’idea mia, è solo che non mi definisco un giornalista d’avanguardia.

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