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“Ho ascoltato l’ultimo album delle Sleater Kinney, No Cities to Love. Penso sia il mio preferito della loro discografia. La voce di Corin Tucker è così incalzante, la chitarra di Carrie Brownstein è incredibilmente gutturale e acrobatica e Janet Weiss distrugge la batteria. I brani sono incredibilmente passionali. Questo lavoro è una gemma nella loro collezione: è semplicemente musica potente e pesante”.
A parlare non è una fan qualsiasi, ma Annie Clark, meglio conosciuta al grande pubblico con lo pseudonimo St. Vincent, nonché compagna di merende abituale di Carrie Brownstein.

Parole come pietre. Il terzetto di Olympia, icona del movimento femminista americano, si era concesso una pausa dalle scene a tempo indeterminato e mentre la Brownstein si era reinventata attrice nella serie tv Portlandia, mantenendosi musicalmente attiva con il side project Wild Flag (assieme a Janet Weiss), la Tucker aveva sfornato due lavori da solista, il tutto mentre si susseguivano voci di un possibile ritorno, alimentate dalle stesse componenti.

In un panorama musicale più che mai eterogeneo, legato a doppio filo con il mondo digitale e dei social network, No Cities to Love appare indubbiamente come un’epifania. Lungi dall’essere l’ennesima reunion fuori tempo massimo, le Sleater Kinney ci ricordano come si scrive un disco rock: brani diretti e con pochi fronzoli, songwriting maturo e politicamente impegnato.
Si parte subito in quarta con l’opener Price Tag: dritta, marziale, una critica efferata al capitalismo e al consumismo “We never really checked, we never checked the price tag” .
Surface Envy, con i suoi tre minuti scarsi, rappresenta il trademark del gruppo, con le sue liriche infuocate, riff di chitarra che negano la benché minima possibilità di arresa e un ritornello contagioso : “We win! We lose! Only together do we break the rules!”. Bury Our Friends consolida le vette melodiche del disco, aggiungendo quel tocco di modernità al sound del trio, condito dagli ottimi inserti funky della Brownstein, invitandoci cordialmente ad archiviare i nostri amici e a riesumare i nostri idoli (eh, magari).
Tra i momenti più riusciti del disco citiamo la title track No Cities To Love , quanto mai corale e cosmopolita e la danzereccia gangofouriana Fangless. E la cronica assenza del basso è sopperita egregiamente da un drumming vigoroso, che ora strizza l’occhio ai Police (Price Tag), ora ai primi QOTSA (No Anthem).

No Cities to Love ci ripresenta le primissime Sleater Kinney tirate a lucido, tra melodie catchy e ruggiti post-punk, riuscendo a rievocare magicamente l’aura pregna di ribellione tipica dei nineties; sembra quasi di venire teletrasportati indietro di vent’anni. Purtroppo la magia svanisce una volta acceso il computer, circondati da hashtag e altre amenità della rete, segno inequivocabile di un tempo che probabilmente non ritornerà più ma che il terzetto è riuscito abilmente a ricreare. Un album che forse non il rappresenta il massimo dell’originalità, pur risultando genuinamente autentico.

Lunga vita allora alle Sleater Kinney, sperando che le ultime parole di Fade non suonino come un profetico canto del cigno, “If we are truly dancing our swan song, darling, shake it like never before”.

Tracce consigliate: Bury Our Friends, No Cities to Love.