Di un macabro equilibrio fra apparenza e decadenza la terra d’Albione si sostenta, lì dove il sogno americano di poter diventare Presidente si trasla in quello di poter, un giorno, sposare un membro della famiglia reale. L’immagine elementare che nelle scuole si illustra di un tipico cittadino inglese è quella di un uomo distinto, bombetta in testa e ombrello al braccio: avete mica mai scovato nei vostri libri d’infanzia il ritratto di un inglese paonazzo di pinte, denti marci e Fred Perry dal colletto allacciato?
L’Inghilterra fagocita ipocrisia e spavalda ne fa un vanto, pugno di ferro e conservatorismo tanto obsoleti, quanto posticci, della cui irrealisticità ed anacronia non soltanto i suoi abitanti, ma anche spettatori lontani sorridono rassegnati, ascoltando l’ennesima bugia detta male dal bancone di un pub in cui il tempo si fa liquido.

Un album degli Sleaford Mods, date le premesse, deve considerarsi quasi un’opera di street art, e non perchè raffigurata su una parete: Jason Williamson e Andrew Fearn mettono al mondo un prodotto crudo e quotidiano, visibile e accessibile a tutti perchè narrazione dei punti deboli di chiunque. Interprete di un inconfondibile spoken dall’accento marcatissimo (il secondo accento brit più bello, dopo quello di Damon Albarn in Parklife), il frontman del duo sciorina Catilinarie cui ci ha abituati sin dagli esordi dirompenti di Austerity Dogs nel 2013, attualizzando l’invettiva -nucleo di questo primo full-lenght targato Rough Trade– a temi più moderni, fra cui la Brexit, i social media e Snapchat (Snout), il successo commerciale raggiunto e le sue conseguenze.
Williamson veste i panni di un predicatore profano su basi post-punk, cantore della disillusione e profeta dell’amarezza; ad immaginarlo nella sua vecchiaia, non potrebbe lamentarsi del creato più di quanto già non faccia, burbero indigeno di Nottingham, iracondo, ma mai insensato. Non è un urlo alla luna B.H.S., singolo di lancio dell’album, in cui il collasso economico di una catena di negozi diviene metafora dell’implosione del Paese: sono arte contemporanea le composizioni degli Sleaford Mods, soltanto in apparenza ripetitive, sono attualità e critica politica, cronaca nera di un mondo che, disco dopo disco, cambia volto e si deforma.
Ecco che dell’Inghilterra si delinea una cartina geografica riottosa, di estremo isolamento sociale convertito da piccoli gruppi in senso di appartenenza ad un credo comune, militanza fra disperati che si riconoscono, fraternamente, commilitoni di una battaglia in cui la realtà statale ha già vinto, lasciandoli ultimi.

English Tapas è, emblematicamente, un titolo che racchiude in sé una contraddizione nazionale, tentativo malriuscito di fondere un piatto iberico alla canonica tradizione britannica (sull’onda della globalizzazione e della gentrification), originando un risultato poco credibile, prima ancora che appetibile –“It’s comedy, it’s make-do, it’s ignorant and above all, it’s s**t”.
La figura della buona -ma bugiarda- Inghilterra si incarna nel soldato protagonista di Army Nights, istruttore militare ferreo scoperto spogliarellista nel cuore della notte, o nel deperito uomo di mezza età che, nel pieno dell’impietosa crisi, cerca il ringiovanimento a tutti i costi discendendo in un abisso di autocommiserazione (Messy Anywhere).

Doveroso è ammettere che English Tapas, contenuti a parte, non rappresenti una produzione da cui attendersi una virata stilistica sorprendente, ché gli asset di base rimangono cementati: beat ridotti all’osso di matrice Fearniana strutturati sulla linea di basso e batteria –salvo sporadiche digressioni dancehall e hip hop-; voce tirata in un sol respiro per sferrare attacchi lunghissimi contro soggetto e complemento oggetto.
Nell’invariabilità giace, tuttavia, la cifra sonora dei due artisti, in un black humour cinico e melodicamente essenziale: di simili agli Sleaford Mods non ne esistono, della stessa pasta forse neanche ne nascono più, e quanto da loro proposto è ancora unico su quello stesso mercato commerciale di cui non riescono a sentirsi parte. English Tapas è un gioiello grezzo, un anello di metallo che ti lascia il segno verde attorno alle dita: non è pregiato, ha un aspetto troppo a buon mercato per pensare che valga grandi lodi; la verità, invece, è che è autentico, duro ed indistruttibile nella sua forza.

Tracce consigliate: Moptop, B.H.S.