I Sigur Rós tornano a farci sognare, anche con il loro disco meno innovativo. È questo il punto debole del disco che nel processo di evoluzione (più emotiva che sonora) che va da Ágætis Byrjun a Með Suð I Eyrum Við Spilum Endalaust rappresenta quasi un passo indietro, collocandosi a metà, tra ( ) e Takk…. Gli ingredienti sono appunto quelli di tutti gli album precedenti, con meno archi e arrangiamenti pomposi e più incursioni elettroniche strozzate e mascheratissime: il mood ha, come sempre, sia i suoi momenti più tetri e opprimenti che (soprattutto) i picchi di pura gioia luminosa che emergono dalle atmosfere malinconiche donando brividi, lacrime e sorrisi. Ormai è la ricetta vincente dei Sigur Rós, perché cambiarla?

Gli accenni pop di Hoppipolla e della prima frazione di Með Suð I Eyrum Við Spilum Endalaust sono stati ampiamente scaricati nell’album solista di Jónsi e quindi ci troviamo di fronte a un album tutt’altro che catchy, formato da sole canzoni mediamente lunghe, assolutamente non radiofoniche, con nessuna melodia vincente. Eppure nella lunghezza dell’album (che comunque è il più corto di sempre della carriera sigurrossiana, con i suoi 54 minuti) la noia fatica ad emergere. Se inizialmente può venire il legittimo dubbio che questo album sia un compitino per far contenti i fan e battere un po’ cassa, ricordiamoci che neanche un anno fa è uscito Inni e che questo lavoro, probabilmente il meno orecchiabile dopo Von, è così complesso proprio perché i Sigur Rós hanno ormai i loro fan e ormai possono permettersi ogni cosa.

Si potrebbero sprecare parole e parole sulle canzoni, ma Valtari è più un ascolto unico e in questo riprende molto ( ), pur mancante di pezzi forti che fanno innamorare al primo ascolto (Untitled 1, Untitled 3…). Valtari invece va molto più assimilato, sicuramente non è un buon punto di partenza per scoprire i Sigur Rós, anzi è il punto di arrivo della carriera della band, la consacrazione definitiva a “band che non sbaglia un colpo”, la più completa e consapevole maturazione del loro processo creativo.
Di Valtari quindi possiamo elogiare i momenti più che le canzoni. C’è il coro iniziale di Ég Anda, a metà tra un canto delle sirene e una chiamata celestiale: da brividi. C’è la gioia esplosiva e devastante del momento centrale di Ég Anda, poi riproposto nell’intera Rembihnútur, canzone più corta e indubbiamente più ammiccante a possibili riscontri commerciali, ma non per questo meno bella, anzi proprio l’opposto. Ci sono i momenti più malinconici, i magistrali attimi di Ekki Múkk che riassumono tutta la carriera della band, la salita sonora di Varúð, che è un vento devastante che spazza via ogni cosa, e le autocitazioni da ( ) presenti in quasi tutto l’album, in particolare su Dauðalogn. Ci sono le affilatissime note di piano di Varðeldur e di Valtari, lente lame gelide e disperate che emergono dalla dolce malinconia squarciandoti l’anima.

Ancora una volta i Sigur Rós ci sconvolgono, ci fanno ridere, ci fanno commuovere e ci danno la certezza che ci saranno sempre.