Chi ha detto gentil sesso?
Questa la prima domanda, non originale ma sicuramente sacrosanta, che balza in mente appena ci si ritrova spazzati via dal tornado Savages e dal loro debutto Silence Yourself, il cui titolo pare, più che una intestazione, un ammonimento a chiunque si sia fatto la domanda qui sopra.
Le Savages sono un quartetto inglese tutto al femminile, giovani post-punker fino al midollo che riportano fieramente in vita quelle atmosfere (ir)respirabili dell’Inghilterra di fine ’70/inizio ’80.
La scena era ovviamente capitanata da Joy Division, Bauhaus e Siouxsie & The Banshees, ma limitare il giudizio di Silence Yourself a un mero paragone con le sole colonne portanti sopraelencate sarebbe un banale e imperdonabile errore.

Il trittico iniziale è di un’intensità che mozza il fiato.
Shut Up (altro monito, se mai il titolo non fosse già stato abbastanza chiaro) apre l’opera con un giro di basso grezzissimo e una chitarra presa in prestito dai Refused di New Noise; la voce di Jehnny Beth sale in cattedra già dalla prima sillaba e non subisce l’aggressività delle strumentali, che, anzi, domina con una maestria sconcertante.
Nemmeno il tempo di stupirci di fronte alle quattro Selvagge che i nostri timpani sono inondati da una funesta coltre di riverbero e feedback e da altri timpani, quelli della batteria: I Am Here è tutta un cambio di velocità con un tiro incredibile nel finale, guidato da un riff assillante e colmato dalle urla strazianti della Beth la quale, senza indugiare, ci conduce immediatamente alla perla del disco, City’s Full: feedback nelle strofe, chitarra opprimente, comparto ritmico solidissimo nel bridge ed esplosione nel ritornello, e la voce, ancora lei, che s’insinua in ogni battuta.
Segue poi un altro trittico di differente fattura. Con Strife e Waiting For A Sign il livello di fuzz, sia nelle sei che nelle quattro corde, sale vertiginosamente, e se nella prima il ritmo punk rallenta in favore di fraseggi melodici più ricercati, nella seconda il tutto si dilata ancor più, assumendo un’aria sacrale e liturgica. La Beth dice di aspettare un segno, ma questo non arriva perché tutto intorno muore, come racconta l’apocalittica strumentale Dead Nature.
Chiusa la parentesi meditativo-esistenziale si ritorna nel seminato, cavalcando velocemente sulle note di She Will, primo singolo estratto, che ricalca le orme dei paladini metal d’inizio ’80, passando poi per il garage di No Face e la violenza (sonora e non) di Hit Me. Husbands, con le sue chitarre à-la Bauhaus, ci spinge palpitanti al finale Marshal Dear, ballata noir prevalentemente pianistica, in cui gli altri strumenti (tra cui un insofferente sax) delineano le profondità di un’atmosfera cupa e sinistra.

La validità delle Savages è fuori da ogni discussione, e nemmeno l’oculata produzione di Rodaidh McDonald (già al lavoro con The xx, How To Dress Well, Adele) può fungere da scusante, poiché la potenza maggiore di Silence Yourself risiede non tanto nell’elaborazione del prodotto – per quanto rasenti la perfezione, quanto più nella brutale energia che viene veicolata dagli altoparlanti e in particolar modo dai loro live.
Come già accennavo in apertura di review sarebbe infatti sbagliato accostare in tutto e per tutto le Savages ai Joy Division e ancor più la Beth a Ian Curtis, e ad ascolto ultimato la motivazione è lampante: se negli avi si riscontrava un senso di rassegnazione e di penoso fallimento nella vita, da questo debut traspare la combattività di quattro donne che vogliono ribellarsi alla “violenza domestica, al materialismo, alla possessività degli uomini, alla paura di girare nelle città, alla condizione dell’essere donne oggi”, per citarle riguardo i temi principali dell’album.
Le quattro londinesi sono musiciste talentuose, giovani donne incazzate, aggressive, con tutte le carte in regola per portare avanti una guerra di cui Silence Yourself rappresenta la prima battaglia, ampiamente vinta.
State zitti, adesso parlano le Savages.

Tracce consigliate: Shut UpCity’s Full, Strife, She Will.