Dentro all’espressione “rock adulto” c’è tutto il clichè del rocker giovane e approssimativo, che in balìa della popolarità ha davanti a se due sole strade possibili: abbandonare presto questo mondo e cristallizzare il mito, oppure sciuparlo irrimediabilmente invecchiando intrappolato nel suo personaggio.
In barba ai luoghi comuni sugli anni che è lecito avere, in realtà la maggior parte degli artisti devoti al rock supera egregiamente il giro di boa dei temuti ventisette, e il rock di Polly Jean non ha bisogno di troppi aggettivi che lo distinguano da quello con cui nel 1992 in Happy Bleeding celebrava la perdita della sua verginità (pur guardardosi bene dal rifarlo ora che ha abbondantemente superato la soglia dei quaranta, perchè è da tempo che la sensualità innata di PJ Harvey ha smesso di aver bisogno di coprirsi di rossetto rosso e sfacciataggine).

Per una come lei la metamorfosi da Riot grrrl a radical chic era forse quella più auspicabile. Imparando a dialogare con l’inquietudine, la Harvey di oggi se ne va in giro ad osservare il mondo vestita di cotone organico e sente il bisogno di esprimersi anche attraverso altre forme d’arte, e così dallo stesso percorso che ha generato il suo ultimo disco è nato anche un libro in collaborazione col fotografo Seamus Murphy.
Il titolo del nono album in studio di PJ è già di per sè un’invettiva. L’HOPE VI di The Hope Six Demolition Project è un ambizioso quanto maldestro progetto di recupero di quartieri popolari avviato dal governo americano negli anni ’90, mosso da illuminate teorie urbanistiche che hanno però finito col prestare il fianco a fenomeni di gentrificazione. Tutto il disco è un lucida e disillusa carrellata cinematografica sugli angoli di mondo che Polly Jean ha conosciuto in questi anni, tradotti in liriche che hanno il tono distaccato di un reportage di attualità che mestamente tratteggia la desolazione delle periferie di Washington e degli scenari post bellici di Kosovo e Afghanistan.

Poche parole a sponsorizzare l’uscita del disco: unica operazione con risvolti promozionali è stata la registrazione stessa, concepita anch’essa in forma d’arte, con PJ e sodali – tra cui i fidi John Parish e Flood, ma anche Enrico Gabrielli dei Calibro 35 e Alessandro Stefana dei Guano Padano – a cucire musica sotto lo sguardo dei curiosi dietro a una vetrina della Somerset House di Londra.
Tra l’America di quest’album e la terra natia di Let England Shake non c’è alcun oceano. The Hope Six Demolition Project è il naturale seguito di quell’album con cui la Harvey volse lo sguardo oltre i confini del Dorset e di se stessa, la disinvoltura nel flirtare con altri generi e la libertà compositiva sono le stesse che dimostrò nel mettere a fuoco la storia dell’Inghilterra e le sue contraddizioni.
Ciò non vuol dire che i cinque anni intercorsi tra i due album siano passati senza alcun effetto, perchè hanno portato nuovi territori sonori in cui muoversi, e insieme ad essi la capacità di farlo con una fluidità inedita, che si increspa solo nei momenti opportuni (le interferenze nella martellante parata di The Ministry Of Defence, l’impasto di blues straniante in The Ministry Of Social Affairs). Il suono è quello pieno e materico che si addice alla protesta di una pluralità di voci, distante dalle ambiguità sussurrate di lavori autoreferenziali come Is This Desire?, la sezione ritmica scandisce con piglio marziale la prepotenza degli ottoni, le linee vocali si ampliano ma il più delle volte scorrono pulite e si impongono senza stridere. Il songwriting si fa cronaca che vive di dettagli, impersonale e allo stesso tempo estremamente toccante: i relitti industriali a deturpare le sponde del River Anacostia, il silenzio di un parco giochi senza bambini gridato dai cori gospel di The Wheel, l’Afghanistan in presa diretta di Dollar, Dollar e dei lamenti infantili a elemosinare in valuta turistica. In alcuni momenti le tinte folk passano in primo piano, come nelle fanfare agrodolci di A Line In The Sand e Medicinals, ma in realtà costituiscono la quinta scenica di tutto il disco, beffarde nel sottolineare costantemente che il patriottismo non è un valore assoluto.

La musica ha così bisogno di outsider come PJ Harvey che le si perdona anche una copertina così (a firma di Michelle Hennings ma nato da uno schizzo della stessa PJ), una sorta di stemma araldico che ok, sarà anche coerente e denso di rimandi ma che dai, è inequivocabilmente brutto. Polly, non farti prendere la mano da questa storia che ti piacciono tutte le arti, a noi basta quella in cui sei una fuoriclasse.

Tracce consigliate: A Line In The SandChain Of KeysThe Wheel