Il primo album solista di Peter Silberman, frontman degli Antlers, nasce da un periodo particolarmente difficile che ha dovuto affrontare un paio di anni fa, quando ha subìto una temporanea perdita dell’udito da un orecchio e ha iniziato a sviluppare una sensibilità acuta ai suoni di tutti i giorni (inclusa la sua voce), problemi che ha pensato addirittura potessero sancire la fine della propria carriera musicale.
Costretto a lasciare Brooklyn in cerca di tranquillità e silenzio, si è quindi isolato nell’entroterra newyorkese, dove è riuscito a tornare a prendere di nuovo confidenza con i suoni, gravitando attorno a musica più sperimentale e ambient. Impermanence è un concept album che ripercorre le fasi della guarigione, le sfide che ha dovuto affrontare trovandosi di fronte a ostacoli imprevisti, tracciando un percorso circolare tra il dolore e la pace, entrambe fasi passeggere; basato sull’idea che tutto è temporaneo e se è una visione del mondo praticabile attribuire la temporaneità ad ogni cosa. Durante la composizione e registrazione ha, per sua stessa ammissione, pensato spesso alle seguenti parole di Miles Davis:“It’s not the notes you play, it’s the notes you don’t play”; da qui l’importanza di dire solo quello che andava detto, e la consapevolezza che gli spazi tra le parole sono importanti quanto le parole stesse.
Il titolo dell’album (Impermanence) prende il nome da una delle tre caratteristiche dell’esistenza nel buddismo, l’impermanenza (l’esistenza è transitoria, evanescente,incostante) e le sei canzoni che lo compongono sono un mantra che nel corso di quasi 35 minuti regala sensazioni ed emozioni molto vivide e intense.

Karuna, che apre il disco, dura quasi 9 minuti, ma è di una bellezza e dolcezza che vorresti non finisse mai. Silberman racconta di quanto il malessere legato al suo stato di salute lo stia portando allo sfascio totale (I’m disassembling, piece by piece/Deteriorating, decayed, decreased/If you’re here, retrieve me); accompagnato da linee di chitarra pizzicate che si ripetono per tutta la durata della canzone come un mantra e da un accenno di percussioni che contribuiscono a dare i giusti accenti alle sei corde.  Un lavoro minimalista che, per non risultare pesante e noioso, necessita non solo di una voce incredibile come la sua, ma anche di tanto cuore e anima. Fin troppo banale accostarlo a Jeff Buckley, perché se è vero che il suo modo di cantare (in un alternarsi di falsetti e bassi) ricorda il cantautore scomparso tragicamente 20 anni fa, il frontman degli Antlers in questo primo album solista dimostra di avere capacità vocali, espressive e compositive di gran lunga superiori. New York racconta di come il problema all’udito abbia reso praticamente impossibile la permanenza in città, a cominciare dal tormento dei suoni di tutti i giorni (I was assailed by simple little sounds/Hammer clangs, sirens in the park…..Blaring brakes, trapped trucks/Honking horns, hissing buses stuck) fino al dover prendere le distanze da qualsiasi luogo cominciasse a diventare affollato (When the room grew loud/I learned to stand in back/Behind the crowd), arrivando alla scelta inevitabile di allontanarsi dalla vita urbana (But when the walls gave way/I had to flee, I had to back away/As the whole town barked/Like I never heard New York). Qui la chitarra più che suonata sembra accarezzata, i fiati si inseriscono dolcemente e creano un’atmosfera malinconica come a voler trasmettere all’ascoltatore la sensazione dell’allontanamento dalla città,  il suo tono di voce dolce e soave si sposa divinamente con tutti questi elementi e ci regala un’altra piccola perla (con i suoi 3 minuti e mezzo è infatti li brano più corto del disco).

Gone Beyond è una nenia di oltre 8 minuti dal finale gospel, in cui il ritmo è tenuto in piedi dal leggero suono di un piatto in sottofondo e da un tom muto che si introduce verso la fine del brano, impreziosito dalla voce che si estende fino al limite in un meraviglioso falsetto. Maya parte dal suono di onde che si infrangono, una chitarra acustica toccata talmente piano da far sentire il rumore delle dita che si muovono e la sua voce melliflua rendono questo brano una sorta di dolce ninna nanna. Segue Ahimsa (termine sanscrito che significa non violenza), una canzone composta come incoraggiamento personale a condurre una vita pacifica e tranquilla, non solo priva di violenza, ma anche volta a giudicare meno gli altri, che lo porti ad avere reazioni più controllate e, soprattutto, ad essere paziente.
Il disco si chiude con la strumentale di cui porta il nome, Impermanence, che ricorda quanto fatto nell’Ep Transcendless Summer uscito l’anno scorso.

Il primo album solista di Peter Silberman dura poco più di mezz’ora, ma è emotivamente così coinvolgente che ci si ritrova talmente immersi in questa dimensione ultraterrena da lui creata da non accorgersi della lunghezza dei brani, ed è proprio la capacità di essere riuscito a trasmettere i suoi stati d’animo fino quasi a farli vivere in prima persona all’ascoltatore che rende questo disco unico e prezioso; il valore di un’opera del genere sta nell’enorme potenza comunicativa che arriva attraverso un minimalismo estremo (chitarra, voce e poco altro).
Se blues e soul significano ancora qualcosa al giorno d’oggi, Impermanence ne rappresenta la quintessenza, è cibo per l’anima.

Tracce consigliate: New York, Karuna