Sarò breve perché ho altro da fare. Peggy Sue è una band passatista, dichiaratamente passatista. Perché? Peggy Sue è, al contempo, anche il titolo di un singolo di successo di Buddy Holly, uno di quei bianchi senza ritegno che rubò la musica ai neri d’america senza dichiararlo per iscritto, da cui poi trasse il sequel, Peggy Sue Got Married, scoperto dopo la sua morte, da cui poi Francis Ford Coppola trasse un film che chiamò, appunto, Peggy Sue Got Married. Con questo non sto a evidenziare una mancata sensibilità alla divagazione mentale da parte della band, per intenderci la “fantasia”, mi limito solo a sottolineare l’andamento citazionista di questo gruppetto di giovani, carini quanto rinomati, suonatori.

E, giusto per la cronoca: Peggy Sue era anche una cantautrice, oriunda degli anni sessanta, famosa per la sua country music.

Punto due: la citazione non si ferma al titolo della canzone, della quale tutta la band deve essersi innamorata contemporaneamente e all’unisono, né tantomeno alla persona di Peggy Sue, che pare fosse la fidanzata del batterista di Buddy Holly – che comunque conoscevano in pochi a detta di molti – l’interesse del raccordo citazionista è proprio la figura di Buddy Holly, punto dal quale la band si lancia per la tanto conclamata ribalta di un certo tipo di anni fine cinquanta anni sessanta: quelli blues.

Punto tre: il quarto album della band porta il nome di Choir Of Echoes, dati di fatto o menzogne?
Menzogne, ve lo posso assicurare. Letteralmente “coro di echi”, Choir Of Echoes, non presenta il “coro” come parte fondante dell’album. Il disco non si basa sui cori come hanno cercato di farci credere.
– Embè?! Chissenefrega!
– No beh, credo sia importante, io mi immaginavo il disco con una montagna di cori, no anzi, due montagne! Due montagne almeno!
– Ecchissenefrega. Io se faccio un disco ci do il titolo che me pare. Se voglio lo chiamo merda e dentro ci metto i fiori. I fiori. M’hai capito?
– Si ma vedi sono stati loro stessi a definirlo un disco con un sacco di voci, di cori!
– Embè?! Io se faccio un disco dico a tutti che dentro ci sono fragole anche se l’ho chiamato merda e poi dentro
– Ci metti i fiori?
– Si, infatti! Bravo. M’hai capito m’hai.

Punto quattro: ma dentro a Choir of echoes, effettivamente, cosa c’è?
Dentro a Choir of echoes c’è qualche coro sì, nell’incipit del disco, e in qualche passaggio più avanti, ma mai comunque più di due o tre voci. La produzione che ammicca con attenzione agli anni sessanta fa perdere alle voci in questione una buona dose di corpo, facendole diventare gli elementi che danno all’ambiente quell’aria un po’ dreamy, tipica di quelli a cui piace il riverbero. Cosa che è comunque presente in tutti gli album precedenti e che certo non definisce la peculiarità di quest’ultimo. La presenza forte di questo disco la si percepisce nelle chitarre elettriche che suonano il blues, sempre immerse in una coltre di riverbero che garantisce, ai suonatori in questione, il posto in mezzo a tutte quelle indie pop band “politically reverberated”. Scelte ponderate.
Il disco presenta unicamente ballate pop di equivalente spessore; l’andamento è un diagramma piatto se non contiamo How Heavy The Quiet That Grew Between Your Mouth And Mine che, posta a metà disco, ferma l’andazzo per farlo partire poi pari pari.

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