La fatica del genio.

Nicolas Jaar è la sintesi della genialità, del genio educato ed erudito. Da subito, dalle prime pubblicazioni, e con una naturalezza disarmante – propria del genio – ha dimostrato di saper già correre prima ancora di imparare a camminare. Del resto, appena ventenne, è salito in cattedra con la stessa sicurezza di un navigato compositore e ha preso a scrivere partiture destinate a rientrare nella categoria “grandi classici” (Time For Us, Mi Mujer, El Bandido), col beneplacito e plauso di chi, sulla stessa cattedra, ha visto ingrigirsi i capelli. L’aritmetica ispirata delle sue produzioni privilegia la tecnica; la misura di queste è come intessuta di sacralità e di purezza; il profilo artistico infine mette insieme bellezza e verità, spettacolarità ed effetto. Nicolas Jaar, il genio, scende sempre in profondità e spinge in superficie bellezze al resto del mondo estranee. Si spiega allora la sorpresa di avere tra le mani Space Is Only Noise, così, dalla sera alla mattina, che è un po’ come addormentarsi soli e non esserlo al momento del risveglio. Si spiega poi l’attesa nevrotica dei capitoli di Nymphs, scandita dal movimento sussultorio della gamba e dal rumore delle unghie spezzate coi denti; lo stupore di prendere parte alla nascita di un progetto come Darkside e l’afflizione di essere presenti al momento della morte. Posso citare ancora, senza prendere fiato, altri solari giorni della vita artistica di Jaar: le soundtrack Pomegranates e Dheepan, la label Other People e la stazione radio. In breve, Nicolas Jaar, ha promesso l’abisso, quello più bello ma più scuro, quello più silenzioso ma che imbottisce i timpani.

La discesa lungo gli abissi più remoti e bui, l’immersione nella grande profondità marina, e generalmente l’accesso al senso più profondo di ogni cosa, richiede un grosso sforzo mentale e fisico, prevede insomma una fatica. Il genio di Nicolas Jaar è lento: possiede uno spiccato senso del sacrificio; sa aspettare, è paziente. E nel momento dell’attesa è vigile, creativo, e come una massa spugnosa attira e accoglie dentro di sé l’intera e grande profondità marina in cui si è immerso, per poi tirala fuori.

La profondità marina in un’ampolla.

Sirens è ricco di simboli, carico di significato; straripante di considerazioni politiche e storiche. Sirens, seppur si costituisca di sole sei tracce, è poi un decalogo del suono: un componimento onnicomprensivo, che comprende, che abbraccia tutto. È la profondità marina contenuta in un’ampolla. Nella sostanza, con questo secondo LP, Nicolas Jaar conferma il rifiuto di uno specifico linguaggio musicale e tutto, nelle intenzioni dell’artista cileno-newyorkese, è componibile, correlabile in un unico tessuto. Jaar, insomma, rende giustizia alla musica tutta, e con Sirens magnificamente interpreta l’elettronica in chiave world come nessun’altro negli ultimi anni. Allo stesso modo, compiendo uno sforzo titanico, muove, sempre con Sirens, una decisa e coraggiosa critica al modo approssimativo e superficiale di pensare l’America come soli Stati Uniti e non anche come America Latina. Sirens risulterà pure minuto, piccolo, ma ha la stessa statura e profondità di spirito del Davide che ha sconfitto Golia. Rispetto ai lavori precedenti – in particolare Space Is Only Noise e Psychic dei Darkside – è più riflessivo, maggiormente centrato su Nicolas, sulla sua persona, e dunque più sentito, più poetico. Allora Sirens è dinamico, vivo, e a muoverlo è il senso, il significato intimo che Jaar, consapevolmente e nella maniera più deliberata, ha voluto imprimergli.

Il genio è lento e silenzioso, ma, nel momento in cui deflagra, il rumore è assordante, clamoroso. Le parti del corpo schizzano impazzite come i vetri che si frantumano e le lattine che si accartocciano nei primi secondi di Killing Time. Una traccia minimalista, strumentalmente sobria, risultante dall’unione del solo piano e di un drum liberatorio e metallico, poi anche della voce soffusa di chi sa che è il tempo di aprire il cuore ma non è ancora disposto a farlo. Ci vuole poco però perché le parole abbozzino un timido messaggio “I think we’re just out of time”, “Money, it seems, needs its working class./We are just waiting for the old folks to die/We are just waiting for the old thoughts to die”: devono essere riaperte le ferite cicatrizzate male, devono abbandonarsi i luoghi comuni e il vecchio modo di pensare. Killing Time è un brano che pare benedire l’intero album, venerandolo con il fumo dell’incenso che si arrampica verso le alte e rigide volte del suono. È come fosse una massa che prende forma con l’addensarsi della nube di fumo e che comincia a mostrarsi nei suoi lineamenti più irritabili in The Governor. Quest’ultima traccia, sicuramente più continentale che latina, è come costruita sul cantato di un rockabillies tossicodipendente e ubriaco, che trascinando le parole dice: “We’ve created a monster and it’s ready to build.”, “Go ahead and forget, just give us a smile”, “All the blood’s hidden in the Governor’s trunk”. La ritmica jittery sottolinea l’urgenza del appello, lo spirito energico di questo, che mira a rivolgersi al regime oppressivo e sanguinoso del generale Pinochet in Cile e al comportamento assecondante degli Stati Uniti verso lo stesso. A Leaves, subito dopo, spetta il compito di pulire il campo dalle cartucce sparate, alleggerire i toni e insieme predisporre l’orecchio all’ascolto della traccia dove l’album e il suo senso si realizzano compiutamente: No. No non poteva che essere un inno dei latini e degli ispanici, del Cile e della sua gente, e non poteva che essere scritta secondo lo stile recitativo, sincopato e sensuale del reggaeton. La traccia è anticipata, ma è anche chiusa, da una conversazione registrata tra Alfredo Jarr e il piccolo figlio, Nicolas. Alfredo, oltre ad essere il padre di Nicolas, è anche il padre del senso, del messaggio di cui tutto Sirens è imbevuto. Egli infatti nel 1987, e quindi molto prima del figlio, aveva già parlato della questione culturale e politica circa il rapporto tra Stati Uniti e America Latina, e lo aveva fatto esponendo la sua provocatoria opera A Logo For America sulla testa di Times Square. No allora marca un messaggio che dopo decenni è ancora attuale e che nella traccia in questione si poggia sulle labbra latine che, tra palato e denti, ripetono “Ya dijimos No Pero el Si está en todo”. Il riferimento esplicito è al referendum nazionale tenutosi in Cile nel 1988, che con la vittoria del “No” pose fine alla dittatura di Pinochet. Un No non era mai stato così Si; così dalla parte dell’uomo, così sostenitore della sua libertà: un Si non era mai stato espresso bene in un No come quello. E se fino ad ora a primeggiare sono i colori dell’iride, con Three Sides Of Nazareth riprende la pioggia battente, che pare senza tregua come l’insistente ritmo post-punk cadenzato dalla batteria e la memorabile e asfissiante bassline eseguita sul sintetizzatore. La voce, lacerata dal rancore per quello che è stato, riempie la bocca di Nicolas delle parole “I found my broken bones by the side of the road.”. History Lesson, in chiusura, è la concreta dimostrazione di quanto il genio di Nicolas Jaar sia incontenibile, intuitivo. Perché la scelta di una traccia doo-wop in un album come questo è già di per sé una sorpresa; la decisione poi di accompagnare al rhythm and blues una provocatoria lezione di storia e non un testo sognante, romantico, che racconti di una cadillac e di un bacio schioccato guardando la luna piena, ebbene, non può che far di lui un genio. Le voci onomatopeiche di un dolce e sinuoso coro di ragazze afroamericane, che femminilmente rubano la scena agli strumentisti mal contenuti dalle camicie bianche e soffocati dal papillon, ancora una volta lasciano passare un messaggio chiaro e risoluto: “Chapter one: We fucked up/Chapter two: We did it again, and again, and again, and again/Chapter three: We didn’t say sorry/Chapter four: We didn’t acknowledge/Chapter five: We lied/Chapter six: We’re done.”. Una lezione di storia, con tanto di critica, in un brano di appena tre minuti; ancora una volta: il tutto in un contenitore minuscolo.

Le sirene.

Sirens è un colpo di frusta che spinge la tensione nervosa fino al cervello, come per scuoterlo. È un manifesto; una proposta per l’America che viene e per il mondo tutto, e che va ascoltata e accolta nella sua interezza. L’obiettivo che si propone è lo stesso che si proponeva l’attualissima insegna luminosa installata da Jaar senior a Times Square: allarmare l’America democratica mettendola in guarda dal nazionalismo estremo e della xenofobia. Sirens, come l’insegna, è pacatamente reazionario, dolcemente provocatorio. Il suono e il senso di cui Sirens è colmo, e che è difficile poter indagare in ogni suo dove, ricordano che le sirene influenzano il tempo e sono onniscienti; dannatamente belle e ammaliatrici, rapiscono e intorpidiscono prima le facoltà mentali e poi quelle fisiche.

Tracce consigliate: Sirens.