Ama ciò che sopravvive. La semina del campo, allontanatosi l’uragano; le forze del corpo, trascorsa la malattia; le idee, imbattute dal cinismo del disincanto.

Love What Survives è un prosieguo atipico, riprendendo le fila di un avvio eclatante erettosi quattro anni fa su gambe elettroniche, vaporosamente sintetizzate e britannicamente post-dubstep. L’immagine di partenza fluisce scorrevolmente assecondando un corso coerente, seppur innovativo: come sfogliando i ritratti dei viaggi di famiglia, a mutare è la scenografia e non i suoi protagonisti che, di scatto in scatto, crescono, fisionomicamente si assomigliano ancor più per mano del tempo, mutando una struttura che è scrigno dello stesso spirito. La produzione si rende più spessa e affascinante, tanto nella sperimentazione di genere, quanto nell’organicità sonora che, da beat e drum machine, evolve in complessità, come se un gruppo cospicuo e non un duo si celasse dietro l’identità dei Mount Kimbie.

Quanto proposto è il riflesso di un lavoro ponderato, mirato a scansare l’accusa potenziale di minimalismo stilistico ed insoddisfatta aspettativa: a scongiurare l’inadempimento dell’incarico di originalità creativa è un’inattesa linea di basso dark wave, scolpita a partire dal synth analitico del manifesto Four Years and One Day. Lo studio dei classici trova applicazione empirica, lasciando immaginare la voce di Robert Smith e Siouxsie far capolino oltre le tenebre delle chitarre dei Bauhaus. Il merito della sorpresa è quel che di più doveroso si possa attribuire ad un terzo album macchiato di contaminazioni che ne siglano, ossimoricamente, l’individualità, sorprendendo l’ascolto di un prodotto prima krautrock e, solo in seguito, smaccatamente elettronico.

Blue Train Lines non è la prima delle collaborazioni dei producer a coinvolgere la vastità tonale di King Krule (You Took Your Time e Meter, Pale Tone, indietro al 2013), coperta avvolgente di una base, contemporaneamente, tribale e incalzante, lì dove inesplosi bpm jungle mutano consistenza in battute post-punk. L’esotismo è vena che pulsa come la batteria elettronica alle spalle di Micachu (Marylin), interprete di quei caratteri tropicali che già gli Django Django avevano dimostrato perfettamente coniugabili alla modernità urbana, come fitta ed affascinante vegetazione cresciuta sul metallico apparato digitalizzato.

Nessuna componente si perde da sola, assieme coese negli intervalli che riallacciano la traccia precedente al sound della successiva (torride le percussioni di SP12 Beat; sacrale la new wave echeggiante nell’organo e nei piatti di Delta; classica ed elevata alle stelle la delicatezza delle tastiere di Poison). I brani ruotano come pianeti di un sistema attorno al fulcro caldo che ne è cuore ed essenza, intensità struggente e concentrata verso un’espressione artistica di livello superiore. Come Re Mida a convertire in oro materia già preziosa interviene, sul finale, anche James Blake, d’ausilio alla sintesi di undici elementi in un’unica spiritualità, profeta della devastante impetuosità del sentire e di una composizione così educata, da risplendere purificata nella fonte battesimale (We Go Home Together, How We Got By). Superficialmente ci si arrogherebbe il diritto di sostenere che l’intero album non funga che da preludio all’ingresso del musicista in un assolo conclusivo che annienta il complesso, più che esserne corredo: ciò non accade, qualificandosi questa come opera singola, caratteristica nelle sue qualità, eppure molteplice, sfoderando una tavola di risorse finemente impiegate, che conducono la sfida di compiere un risultato sorprendente alla vittoria.

Tracce consigliate: We Go Home Together, Audition