I Marching Church vengono dalla Danimarca. È più facile che li riconosciate come secondo side-project (il primo sono i Vår) dell’attivo cantante della band punk Iceage, Elias Bender Rønnenfelt. Il bisogno di isolarsi e creare per conto proprio, sotto un altro monicker, un disco dev’essere abbastanza urgente in Rønnenfelt: dall’ultima uscita degli Iceage, Plowing Into the Field of Love, sono passati solo sei mesi. Ed effettivamente quest’urgenza espressiva si sente, si difende per conto proprio e si crea una nicchia con personalità in questo This World Is Not Enough.

C’è da dire, per iniziare, che come personalità suona un po’ disturbata, ma forse ce l’aspettavamo. Passando oltre la brutta copertina della Sacred Bones, il mondo notturno dei Marching Church ci si dispiega davanti subito e, come tutte le cose buie, puoi intuirne e intravederne i contorni e le linee prima che lo sguardo si abitui. Una di queste è banalmente la voce di Rønnenfelt stesso, che già al primo ascolto si mette in mostra come filo conduttore: è lui il trascinatore e la testa di questa band, la sua voce spezzata dà un timbro a volte diverso, più profondo di certo, ad una musica già espressiva di per sé. Rønnenfelt cambia le carte in tavola incespicando, respirando, sussurrando, trascinando le parole, mentre aggiunge all’attitudine punk o post che sia una vena cantautorale.

Quando lo sguardo si abitua alla notte di This World Is Not Enough si passa alla musica: i Marching Church riescono a spostarsi agevolmente – anche grazie alla costante vocale – dalle sonorità simil Primal Scream e Blur della fantastica King of Song (c’è una parte che scimmiotta palesemente Tender) alla follia nevrotica post-punk di Hungry for Love, che inizia con delle misteriose parole in spagnolo (perché? boh) e prosegue con liriche urlate disperatamente, un po’ come un Henry Rollins sotto ketamina o un Nick Cave che l’ha presa veramente male, fino ad arrivare a momenti praticamente blues (sempre bui in un modo tutto loro) come la canzone Every Child. Punto notevole dell’album e paradigmatico di tutto This World is Not Enough è l’equilibrio tra il silenzio minimalistico e le orchestrazioni discrete ma onnipresenti, con archi inquieti e ottoni squillanti sempre pronti. Un discorso a parte va fatto per le chitarre distorte: non permeano il disco come i lavori precedenti ma colpiscono, raramente fanno da accompagnamento, preferendo al compito di costruzione del suono gli strappi nello stesso, il compito di distruzione. C’è un dolore sommesso, più disperato che rabbioso, in Your Father’s Eyes ad esempio, e quando appaiono gli ottoni di cui già sopra sembrano più stranianti o parodici che sinceri, suonando ovunque benissimo.

Una chitarra notturna e leggermente riverberata e una batteria spennellata accompagnano l’ultima camminata di This World Is Not Enough, Dark End of the Street, in un momento che sa di Dirty Three – e questo è un complimento. Una tromba segue il finale del disco, con una nota quasi ottimista, sicuramente dolce.

Il disco di Rønnenfelt e compagni suona bene e ci sono dei momenti di grandi nevrosi e ottima musica; ciononostante nella nebuolsa degli intenti artistici This World Is Not Enough si piazza decisamente dalla parte del gettito o della necessità del singolo di raccogliere e mostrare una sua parte rimasta inespressa. La bella casualità che questo gettito sia fruibile e interessante rende This World Is Not Enough un buon disco, notturno e sincero.

Tracce consigliate: King of Song, Dark End of the Street