Venticinque anni di carriera, undici dischi sulle spalle e non sentirne minimamente il peso.
Come è sempre successo in passato, i Low riprendono tutta la materia pregressa (slowcore, rock, americana, dream pop) e la rielaborano per compiere l’ennesimo passo in avanti, questa volta tanto coraggioso e inaspettato quanto unico e di rara bellezza.

Double Negative è, sotto tutti i punti di vista, un disco di contrasti: bene e male, uomo e macchina, religione e politica (il mormonismo di Sparhawk e Parker – coniugi e guida della band, ricordiamolo – spesso in lotta con il loro stesso liberismo), progresso tecnologico e decadimento sociale. E se queste tematiche non sono effettivamente nulla di nuovo sotto il sole del ventunesimo secolo musicale (giusto per citarne qualcuno dal 2018: OPN, Amnesia Scanner, Yves Tumor), è innegabile che l’impatto emotivo del lavoro sia devastante.

Questo infinito e sfaccettato dualismo è preventivabile già dal titolo e dalla copertina: il doppio negativo è inteso come il ribaltamento cromatico della realtà, come la sottrazione del colore e la resa infernale di un già distopico presente; la concretizzazione sta in quel nero oggetto misterioso proveniente da una contemporaneità futuribile, quei due occhi spenti che ci fissano ammonenti: uno sguardo cui è impossibile fuggire, nonostante il roseo contesto.
Quando la teoria si trasla e concretizza sul piano musicale, poi, accade qualcosa di magico.
La melodia, da sempre focale nel modus operandi del gruppo, persiste (soprattutto negli intrecci vocali), ma viene attorniata, fagocitata, ricoperta, soverchiata dal rumore e dagli effetti; la forma canzone più canonica non perviene e anche gli elementi più ovvi (tastiere, chitarra, percussioni), assumono una nuova ragion d’essere.

Il trittico di apertura, presentato come un unicuum accompagnato da video, è la summa artistica del lavoro: in esso vengono cantati il dolore e la disperazione con tono serafico, mentre tutt’intorno sono droni saturi e opprimenti, battiti riverberati, ma anche calma piatta, stagnante, attesa rassegnata e ingannevole speranza, silenzio claustrofobico. C’è davvero tutto in questo album: sfrontate distorsioni torci-budella (Tempest), contraltari più quieti e solo in apparenza positivi (Always Up e The Son, The Sun), pezzi più canonici (Dancing and Fire e Poor Sucker) e ballate più sperimentali che raggiungono picchi di ineffabile e tormentata bellezza (Always Trying To Work It Out, Rome (Always In The Dark), Disarray).
Citare i testi, purtroppo, sarebbe una violenza; una cernita delle frasi più significative e simboliche risulta impossibile: l’opera, nella sua totalità, è una scheggia di poesia, una presa di coscienza fulminante che procede per immagini indivisibili. Scontato dire, a questo punto, che la lettura sia d’obbligo.

Rumoroso, destabilizzante, commovente, ti spezza le ginocchia e al contempo ti accarezza; ti lascia lì, inerme, a fare i conti con te stesso. Double Negative è una grande metafora, lo specchio del collasso sociale e personale che brucia dentro e che, se solo avessi la forza, vorresti prendere a pugni tanto è manifesta e lacerante la sua sincerità. Allo stesso tempo, però, sa essere delicato, romantico in un certo senso, catartico e rassicurante nel suo escatologismo collettivo. Così come, musicalmente, la voce e la melodia trovano il loro spazio nel rumore, allo stesso modo l’uomo deve trovare il proprio posto nel male, la serenità nel dolore.

Il Paradiso è ormai un miraggio, non ci resta che fare i conti con l’Inferno, abbracciandolo.

Tracce consigliate: Rome (Always In The Dark), QuorumDisarray