Quanti di voi che stanno leggendo questo articolo amano i Local Natives e il loro debutto Gorilla Manor? Quanti si sono emozionati con Airplanes? Quanti altri hanno cantato a squarciagola il ritornello di Sun Hands, prima di farsi travolgere da quel riff che al cinquantesimo ascolto ancora ti coglie impreparato? Quanti, infine, si aspettano molto da questo sophomore Hummingbird, pubblicato oggi a distanza di più di tre anni dal primo lavoro? Tanti, proprio tanti.

Hummingbird vuol dire colibrì, e il colibrì, oltre ad essere piccolo e a battere le ali velocemente, ha un piumaggio particolarmente brillante il cui colore cambia in base all’angolo d’incisione dei raggi solari e all’angolo d’osservazione. Da questa premessa sarà forse più semplice circoscrivere e interpretare un album composto dall’alternarsi di momenti intimi (comunque prevalenti) e sprazzi di luminosità, ma si badi bene mai fissa, bianca e abbagliante, bensì momentanea, come un faro sul promontorio che gira e gira, come il riflesso sull’orologio di un tizio sconosciuto che continua a muovere il braccio.
Così le note di pianoforte della romantica You and I sono carezze, la batteria (in tutte le tracce palesemente influenzata dal tour con i The National – l’Aaron Dessner dei quali è co-produttore dell’album) e i battiti di mani di Heavy Feet sono scintille tuttavia ombreggiate dalle stesse chitarre e dalle voci malinconiche; Breakers e Black Balloons travolgono e fanno cantare, la prima, e muovere a suon di riff, la seconda, tanto quanto i pianoforti di Three Months e Columbia – dedicata alla madre di un membro della band scomparsa l’anno scorso – fanno fermare e respirare a pieni polmoni, riflettendo se “Am I givin’ in now? / Am I lovin’ you now?”; Mt. Washington è lo straziante e implacabile autoconvincimento che “I don’t have to see you, right now” e il coro, l’accompagnamento elettronico, ma ancor di più l’assolo squarciante della conclusiva Bowery sono l’urlo di chi cerca una quiete, una liberazione, e chissà mai se la troverà.

Hummingbird è un bel lavoro, orecchiabile e largamente fruibile, prodotto bene, con ottimi suoni, testi sinuosi, varietà di sensazioni e sentimenti che sottolineano il sincero feeling esistente tra i Local Natives e tutto quello che le loro menti, mani e ugole generano. Hummingbird sembra però un disco potenziale: ti lascia la sensazione che le idee messe in gioco sarebbero potute essere davvero tante, ma un po’ sono state lasciate in un angolo forse per paura di bruciarle, forse per paura di strafare. Hummingbird migliora con l’accumularsi degli ascolti e con un paio di buone cuffie, ma rimane sempre in bocca l’amaro di un “ciò che sarebbe potuto essere”. Può darsi che con una dose in più di coraggio e un paio di singoli trascinanti staremmo parlando di tutt’altro.
Hummingbird è come le piume di un colibrì: dipende da dove lo guardi.

Tracce consigliate: Bowery, Mt. Washington