Ve lo ricordate What Did David Bowie Do at Your Age? Quel giochino che permetteva a noi comuni mortali di confrontare – bonjour tristesse – un momento esatto della nostra vita con quella del Duca Bianco? Bene, proviamo a fare un po’ lo stesso giochino con Let’s Eat Grandma.

A 4 anni, Rosa Walton e Jenny Hollingworth si incontrano per la prima volta in un asilo di Norwich, su un tavolo da disegno: nasce un’amicizia robusta che è pure un sodalizio creativo – sembra un libro di Elena Ferrante, ma è storia vera. Come ogni pre-adolescente che si rispetti, anche Jenny e Rosa hanno passioni usa-e-getta: la prima è girare filmini, passatempo proficuo (we made loads of films) ma che presto le annoia. A 13 anni, quindi, la nuova passione diventa la musica e nasce il progetto Let’s Eat Grandma.

A 14 anni iniziano a registrare quello che diventerà il loro primo disco, I, Gemini. Ci vogliono due anni per finirlo, non per divergenze creative ma perché d’inverno c’è scuola e allo studio di registrazione possono andarci solo nelle vacanze estive. A 16 anniI, Gemini (buon esordio, ma ancora acerbo) esce per Transgressive Records e da lì la band inizia a esibirsi sui palchi di SXSW, Primavera Sound, End of the Road, Way Out West, Pukkelpop, Latitude e Field Day. Non esattamente il garage di casa.

I’m All Ears, secondogenito del duo “experimental sludge pop” – così si autodefiniscono le ragazze – non è solo un passo in avanti rispetto ad I, Gemini, ma cinquanta passi in avanti. Un po’ come quando, ragazzina, fai una lunga vacanza con gli amici e al ritorno i tuoi genitori ti scrutano con occhi strani dicendo “ti vedo cambiata, cresciuta”.

Jenny e Rosa – e le loro voci – sono cambiate e cresciute, hanno 19 anni e non 13, sul palco non si nascondono più dietro cappucci e capelli lunghissimi e, abbandonati i testi un po’ childish dell’esordio, non hanno paura di scrivere pezzi coraggiosi e perfino “poppolitici”. Si inizia con suoni à la John Carpenter (Whitewater) e si prosegue con canzoni che esaltano la femminilità e parlano di stereotipi di genere (il singolo allo stesso tempo abrasivo e catchy Hot Pink), dove non a caso c’è lo zampino, in produzione, di Faris Badwan dei The Horrors e soprattutto di SOPHIE, una che di gender theory e alien pop se ne intende.

Canzoni che parlano di consumismo, dello sforzarsi di essere un po’ meno materialistici (“Give me something real, something evergreen, something unmundane”, invocano nel synth-rock psichedelico di Snakes and Ladders), di alienazione, psicosi e mental health (in Donnie Darko, che va a chiudere il disco con undici minuti in cui si passa dal synth-pop alla dance fino al rock psichedelico). Ovviamente si parla anche d’amore, di amicizia (la pillola synthpop It’s Not Just Me I Will Be Waiting, che se vivessimo in un mondo giusto sarebbe la canzone pop perfetta per l’estate), di tecnologia pervasiva (Hot Pink e Missed Call (1), pensata come una vera e propria suoneria) e di insicurezze (i nove minuti, imprevedibili e un po’ glam rock, di Cool & Collected): in fondo, di cos’altro dovrebbero parlare, nel 2018, due teenager?

I’m All Ears è contemporaneo nei testi e futuristico nel suono (in produzione c’è David Wrench, già al lavoro con Frank Ocean, FKA Twigs, The xx), è freaky ma anche sofisticato, ma soprattutto non è e non vuole suonare adulto (e meno male). Super self-confident, Hollingworth e Walton hanno confessato a Simon Reynolds che i soliti paragoni con le artiste del passato non sono troppo azzeccati:

Even though we like them…, we’re not really inspired by CocoRosie, or Kate Bush, or Bjork, or Cocteau Twins!

Piuttosto, c’è tanto contemporary pop, dalla regina del self-love e del pussy power Janelle Monaé – cui Rosa ha dichiarato spesso di ispirarsi in fase di scrittura – a Lorde Christine & the Queens (Pure Heroine e Chaleur Humaine sono infatti tra i loro dischi preferiti). Insomma, è il pop della Generation Z, nata con lo smartphone in mano, ansiosa, tollerante, che non mette paletti tra i generi musicali.

Siamo tutti avvisati.