Osservate High Noon, il dipinto di Edward Hopper; musicate la solitudine della società contemporanea, attribuite ai silenzi un contenuto, alla melancolia una via d’espressione. Dall’interpretazione di debutto presentata con Born To Die, cala il sipario su una figura macchiettistica progettata in base ai requisiti chiave che una diva non convenzionale, ma diva per antonomasia, debba possedere: look gonfio, patinato e studiato, scenografia a Pantone pastello, set ambientato nella vecchia Hollywood. Controcorrente nell’architettura di un immaginario arretrato contro il moderno, ma, commercialmente, strategicamente pop.

Lana Del Rey fronteggia l’impietosa memoria collettiva che non dimentica la sua identità anagrafica di Elizabeth Grant, tendendo a sottovalutarne l’autorità cantautorale e sonora, fondandosi sulla più rapida convinzione per cui solo una sapiente produzione ed un machiavellico management sarebbero Parche delle fila del suo successo. Lust For Life sconfessa le previsioni più scontate, offrendo quanto di più autentico l’artista potesse, ad oggi, elaborare.

In primis, ponendo in discussione stereotipi legati alle sue caviglie come ombre: non più vessilli statunitensi sventolati nel deserto, ma l’utilizzo della propria riconoscibilità internazionale come statement politico avverso all’attuale amministrazione presidenziale; non un’opera sonnolenta, composta di ballate a volte scialbe, a volte superflue, ma un disco che apre alla sorpresa della sperimentazione (Summer Bummer stende un tappeto rosso a Playboi Carti ed A$AP Rocky, come superstar di un featuring che mescola le tendenze melodiche retrò della Del Rey alla pervasività mondiale dei beat trap).

Lana Del Rey rimane sé stessa o, più accuratamente, ritorna a sé stessa. Non ci si attenda un lavoro di innovazione radicale, le fondamenta di un sound placido, rallentato e lirico rimangono salde (Coachella – Woodstock In My Mind o, ancora, In My Feelings); mutano le parole scritte, evolvono come un adolescente dannato che si crogiola nell’intensità del sentirsi incompreso sino a farsi uomo, retto su un’analisi di coscienza adulta, sull’onestà della riflessione sulla realtà esterna, su un Paese che inceppa, su uno sforzo in potenziale che non riesce ad esplodere in miglioramento.

Alcuni movimenti rimangono azzardati, lì dove la naturalezza riconquistata viene incomprensibilmente deviata verso elementi non richiesti, forzatamente introdotti in un album che uno scheletro visibile lo possiede (vedasi la beatlesiana collaborazione con Sean Ono Lennon in Tomorrow Never Came, o la scolorita ed invecchiata Beautiful People Beautiful Problems con Stevie Nicks), ma non compromettono irreparabilmente un prodotto complessivamente organico: Groupie Love è un iconico brano firmato Del Rey, in cui il secondo intervento di A$AP Rocky nulla oscura e sottrae, ma interseca sul finale a due voci, variando su un altrimenti monocorde tema pianoforte-intonazione della cantante. La title-track fa posto a The Weeknd, in un canto d’amore delicatissimo ed elevato, su campane di rintocco verso l’alba di un nuovo risveglio, verso la brama, come il disco proclama, per la vita.

Non si sottovaluti un’opera che, per quanto colmata nelle sue debolezze da collaborazioni illustri, è un germoglio in crescita: Lana Del Rey cristallizza la sua essenza, ma la rende più nutriente. Da attrice maledetta sulla scena di un crimine americano si sta muovendo, lentamente, verso la concreta artista che è e che, in divenire, ulteriormente sarà.

Tracce consigliate: Love, Summer Bummer.