Il tempo vola e fin troppo veloce: è passato solo un anno da quando ho recensito il secondo capitolo ufficiale della discografia di Lana del Rey, lo scadente Ultraviolence. Scadente per motivi che ho lungamente descritto e che oggi trovano ancora la propria validità a un eventuale ri-ascolto dell’album.
C’è stato un momento nel quale perculare le depressioni stereotipate dei testi di miss del Rey sembrava divertente: vi dico in realtà che non ha mai fatto ridere, proprio come i meme su Adele e Lady Gaga. I testi sì, quelli hanno sempre ridacchiare senza bisogno di prese in giro e infatti sono finiti a costituire l’immaginario di qualche milione di ragazzine più o meno problematiche. Eppure Born to Die aveva quello che mancava a Ultraviolence; un apparato musicale con i fiocchi, magniloquente quando necessario, più stringato in altri casi, sempre all’altezza di un prodotto pop-olare di alta qualità, capace di giocare con la suggestione retrò e di incastrarlo perfettamente nella plastificazione del suono. E indovinate un po’, aveva quello che manca anche a Honeymoon. Però…

I singoli rilasciati prima dell’uscita del disco sono ben quattro e basta ascoltarli per capire qual è la direzione di Honeymoon. Prendiamo la title track: sei minuti di atmosfera minimale, quasi in disparte la strumentazione tranne per alcuni archi e tutto giocato sulla voce, bisogna dirlo abbastanza suadente, della cara Lana. Unico momento inquieto è il ritornello che richiama, per la centesima volta, una delle ispirazioni più facili della nostra, ancora una volta Nancy Sinatra e in generale il pop swing da gattamorta (che ha, per inciso, avuto ottime e carismatiche interpreti). Non è un inizio straordinario ma nemmeno ci si strappa i capelli; anzi è quasi piacevole. Diversa High by the Beach che rispolvera le atmosfere psichedeliche già sventolate in West Coast e Sad Girl con un’innovazione bizzarra; un beat trap-pop e una parte vocale che alterna momenti cantati a semi-rappate. Curiosa ma niente male.  Terrence Loves You, altro singolo ancora, fa sfoggio (almeno in studio) di una delle prestazioni vocali più sentite dell’album accompagnata da un piano discreto e d’atmosfera quanto basta.
Cito en passant, come se ce ne fosse bisogno per un ascoltatore un minimo attento, che la tematica generale è ancora quella dell’amore nelle sue accezioni più devote (disperate?).
A metà album arriva l’interludio Burnt Norton: va segnalato perché Lana punta in alto recitando l’omonima poesia di T.S. Eliot. Religion e Salvatore sono due discrete tracce, la prima fallata da una durata leggermente troppo estesa, la seconda da un’atmosfera di incredulità suscitata da questo curioso calderone di suggestioni italoamericane davvero terrificanti, a metà tra una terribile copia de Il Padrino e Malèna. Magari al di là dell’Oceano qualcuno potrà anche trovarla di un liricismo tanto esasperato da essere affascinante; da italiani non si può che prorompere in un’amara risata a sentire cantare tali romanticherie ben oltre il ridicolo. Mi evito la lezione di storia ed evito anche di bacchettare sulle dita il trattare in maniera fascinosa e sensuale il ritorno in auge della mafia in Sicilia favorito dalla longa manus americana che diventa lo scenario per fantasie da ragazzina. La successiva Blackest Day sembra voler ricalcare in qualche maniera il pop-trap-rap già visto all’opera prima ma con meno arroganza, o è forse solo un pop ritmato e con un ampio uso di cori e voci stratificate su voci?
In chiusura, come su Ultraviolence, una cover di Don’t Let Me Be Misunderstood. La versione di riferimento è chiaramente quella di Nina Simone (speravate nei Santa Esmeralda? E invece no!). Un eccesso di minimalismo finisce a penalizzare il brano, che avrebbe probabilmente goduto di un arrangiamento più crasso, più pacchiano e decadente non perdendo nulla in spleen. La precede, ed è forse il picco qualitativo dell’album, l’ottima Swan Song che sembra lanciare qualche vago richiamo a Born to Die, soprattutto nei cori, ma senza che ci si lasci prendere troppo la mano.

La questione è va presa con onestà: Lana del Rey è – era? – un bel personaggio, costruito per metà da se stessa e per metà da chi lavora dietro le macchine dei suoi album. Tragicamente non ha una personalità vocale dirompente e non la troverà per strada né oggi né domani. Eppure, per quanto mi riguarda, pur trovandoci sulla medesima via tracciata da Ultraviolence qualche passo avanti è stato fatto. Migliore il coinvolgimento, migliori le idee, meno momenti morti; i testi rimangono tragicamente adolescenziali ma possiamo tollerarli. Siamo però ancora lontani da un lavoro maturo; non resta che sperare che al prossimo giro Lana si risvegli novella Joni Mitchell.

Traccia consigliata: Swan Song