Si crede che la Fossa delle Marianne sia, per ora, la depressione oceanica più profonda conosciuta dall’uomo, ma mi sento di dissentire perché con il loro settimo lavoro i Kings of Leon sono andati più a fondo, risucchiati dal vortice dell’autocitazionismo più sfrenato: come in un maelstrom li ha trascinati verso la creazione dell’ennesimo album proclamazione di un narcisismo senza freno, che li vede da un paio di uscite di troppo a produrre Only By The Night, memori del successo poderoso che l’album nel 2008 aveva ottenuto, con gente per il mondo ad canticchiare di genitali in fiamme.

Se Youth and Young Manhood sembrava il primogenito nel quale si ripongono le aspettative migliori, e Aha Shake Heartbreak portava con sé ancora qualche speranza, con l’avanzare della propria carriera la famiglia a stelle e strisce si è legata indissolubilmente al verbo “perseverare”, livin’ the dream: da ragazzini del sud alle prime armi che suonano in bar sudati, a destrieri della scuderia Sony.
2016, nuovo album sotto RCA: per non farsi sfuggire nulla la band del Tennessee decide, con la pubblicazione del singolo Reverend, di inserire una citazione colta ad cazzum: citare sé stessi non è sufficiente, meglio tirare giù anche il povero Man Ray.
Ma non raccontiamoci storie, i KOL sono l’esemplificazione della band costruita per riempire le arene, che sa come creare pezzi orecchiabili e continua a crearli… uguali dal 2008.
Pezzi che hanno un’unica “qualità”: attecchire.

Find Me: l’apertura con synth seguita dall’entrata del drumming – arpeggi – distorsione, triade imprescindibile nella formula della band, ma il testo della canzone raggiunge uno dei momenti più bassi della carriera del quartetto: how did you find me” x ∞.
Walls, acronimo per: We Are Like Love Songs, dovrebbe invece tramutare in We appreciate lame layers (too much), e con Over, l’over-layering cancella ogni chance al brano per potersi inserire nel cuore di qualche disgraziato appena scaricato: tre chitarre, piano, batteria aggressiva, synth tolgono respiro al cantato.
Muchacho, è memore del vibe di Mi Amigo, e non è certo il brano peggiore, anzi: probabilmente il miglior divisorio possibile per dar fiato all’ascoltatore durante le altre tracce radio-winking.
Conversation Piece compare con la forza distruttiva di un brano che prende: i Pixies, i Velvet Underground e li mette in un frullatore assieme a tastiere/archi/l’immancabile momentum nel quale la voce del lead-singer si spezza in preda alla sofferenza e lascia nuovamente spazio alla parte strumentale.

Walls è un album dal quale bisogna distanziarsi: non è tutto male e non è certo la manifestazione dell’inferno in musica (nonostante dopo l’ascolto si necessiti di un’esorcista per togliersi i brani dalla testa), ci sono pure delle linee di basso carine qua e là, però “purtroppo” i Kings of Leon sono arrivati ad un punto nel quale la maggior parte delle loro canzoni sono confondibili e sembra che non abbiano più nulla da dire.

Traccia consigliata: Muchacho