Il ritorno di Archy Marshall nelle scene era ormai atteso da tanto tempo. Quello di King Krule, poi, da ancora di più. I quattro anni che separano 6 Feet Beneath The Moon da The OOZ hanno segnato così tanto la carriera dell’artista che, nel lasso di tempo di un’ora, trascrive in poesia l’amore irrealizzabile, la solitudine che lo segue e l’impassibilità verso il mondo esterno, causata dal dolore di una troppo grave perdita.

Ma quando si ascolta The OOZ non si è soli.

La continua mobilità del proprio rumore è capace di farti percepire una seconda presenza nella camera, come se le viscere di questo organismo si contraessero in continuazione e niente fosse in grado di mutare il loro assordante rumore.
Isolato insieme a questo individuo, Marshall sogna di poter tornare a vivere in quel piccolo Eden insieme alla sua Eva, unica ragione per cui una città di parassiti potesse divenire un paradiso. I rimpianti, invece, sono l’unica cosa di cui il Presente fa dono, senza la minima consolazione, questo è ciò che deve essere accettato.
Diversi elementi danno voce all’animo di questo Re, abbandonato dalla propria Regina.

Con una certa aggressività simile ad un Mellon Collie and the Infinite Sadness, viene lasciato un piccolo spazio al dolore (Dum Surfer, Emergency Blimp, Half Man Half Shark). Rispetto al proprio debutto, però, il cardine è un malumore lento e progressivo, prestabilito a liberatorie gradazioni forzate. Gli sprazzi jazz del primo album hanno trovato una sorta di definizione verso una certa no-wave americana ed è forse per questo che il camaleontico genio dell’artista si sente parte del mondo sublunare. La filosofia di Sublunary acquisisce un certo significato per via della continua mutazione della regione alla quale l’artista appartiene. Vivendo sotto l’ombra della regione celeste, Marshall si sente soffocare dai continui cambiamenti della propria persona, inchiodata al mondo terreste dal primo all’ultimo dei propri giorni.

Ed è poi l’altro animo del disco a volgere verso i lenti rock anni 50 di Logos e Lonely Blue. Inizialmente premurosi, questi tuffano poi nelle acque blu scure dell’abbandono, completandosi con lo sfondo grigio che grida all’aiuto (Slush Puppy). La camera si fa sempre più piccola con il continuare del disco. La presenza osserva, si percepisce sempre di più ed è sempre più vicina. Arriva la title-track ed Esso arriva a sussurrarti nelle orecchie:Is anybody out there?”. La risposta la sapete entrambi, fuori da quella stanza, ormai divenuta cubo, non c’è nessuno.

Solo alla fine si capisce cosa quel personaggio rappresenti. The Ooz è la solitudine di ogni ascoltatore e il disco è la propria rappresentazione. Lui diviene persona e chi ascolta ne fa la sua conoscenza. Ci si troverà sempre più a contatto con questo, sicché non si diventerà di nuovo tutt’uno, ritrovandosi.