È ormai lecito e comprensibile ricercare, in maniera anche un po’ dubbiosa, il perché Kendrick Lamar goda di un hype e di una copertura mediatica così ingombrante, di un’innegabile approvazione così ferventemente trasversale, di cori così osannanti ad ogni nuova pubblicazione. È ormai impossibile provare a dire che un lavoro di Kendrick Lamar non sia di proprio gradimento senza venire travolti da una mandria di (il più delle volte pseudo-)fan adoranti e totalmente accecati dall’aura luminosa che circonda l’artista piuttosto che dalla sua arte vera e propria.
Questa è, ad oggi, la realtà oggettiva e innegabile: Kendrick sta all’hip hop degli anni Dieci (non me ne volere, Kanye) là dove Zeus stava nell’Olimpo. È inutile provare a confutarlo, è stupido tanto negare l’evidenza quanto salire sul carrozzone dei vincitori facendosi trainare dalla folla; è doveroso farsi delle domande, cercarne i motivi e i meriti, capire. Sarebbe facilissimo dire che la copertina di DAMN. sia “stilisticamente” brutta ma d’impatto, che DAMN. sembri più il sequel di good kid, m.A.A.d city che di To Pimp A Butterfly; sarebbe ancor più semplice nominare degli insospettabili U2 e la sorniona Rihanna tra i featuring, una produzione siderale (James Blake, BADBADNOTGOOD, Mike Will Made It, Dj Dahi, KaytranadaThe Alchemist), il ritorno di un urban abrasivo che vive di beat veri e propri, quelli che ti fanno muovere la testa e pompare l’impianto della macchina. Basterebbe aggiungere un black qui e un radiofriendly lì, un pizzico di conscious, humble e loyalty quanto basta e il gioco è fatto.

E invece no.

Invece con Kendrick non funziona così, no, perché lui è riuscito a costruire un universo letterario visivo (menzione d’onore ai video di DNA. e HUMBLE.), musicale, ma ancor più scritto nero su bianco su fogli sparsi per stanze che puzzano di fumo e umidità; un immaginario personale, tanto privato quanto globalmente fruibile, fervido, vivo, vero, veritiero. Immagini di vita vissuta che si tramutano in rime, cicatrici che si dissolvono nel flow, paure assorbite da rintocchi di pianoforte sui quarti, momenti di euforia centellinati su sporadici hi-hat in trentaduesimi, fierezza celebrata ad ogni colpo di cassa, riflessioni che si districano sulle sinuose anse di un basso suadente e sulle mezze aperture di chitarre ariose. Il mondo di Lamar è già così vasto e dettagliato da potersi permettere il lusso di autocitazioni, continui rimandi a se stesso all’interno di DAMN. (le ripetizioni costanti di termini come loyalty humble ne sono un esempio), fino a pescare nella discografia tutta (I got a bad habit/Levitate, duckin’ haters).

Il plus di Lamar è la consapevolezza del suo ruolo di narratore, di una persona che sul pulpito, volente o nolente, ci è finita e ormai una storia la deve raccontare per forza. Perché non raccontarla bene, dunque? Utilizzando un flow e dei toni riconoscibili tra mille, una voce riconoscibile tra mille, uno stile unico?

Kendrick ha iniziato consapevolmente la sua opera da Compton con good kid, m.A.A.d city (sua seconda fatica e non debutto, ricordiamolo), dal suo passato per quelle strade difficili eppure definibili casa, arrivando quasi inaspettatamente alla White House con To Pimp A Butterfly.
Il presente coincide con il principale pretesto narrativo di DAMN.: trovare uno spiraglio di salvezza, un porto sicuro in cui rifugiarsi, nella religione e nella spiritualità. L’emblematica coverart e l’emblematico titolo, però, mettono a nudo il fallimento di questa intenzione. I riferimenti biblici (soprattutto al Deuteronomio) sono moltissimi, così come gli ossimorici accostamenti vita/morte, salvezza/dannazione. C’è spazio anche per altri sottotemi che arricchiscono l’opera nella sua visione d’insieme: amore, gang, soldi, valori morali da recuperare, famiglia, introspezione.

Nella sua varietà e imprevedibilità, sia tematica che sonora, la matassa di DAMN. si snoda in maniera così naturale da risultare difficile individuare momenti che meritino un’analisi più attenta di altri. L’esito è un disco coeso e intelligente, tanto maturo e riflessivo quanto godibile.

Ora, dunque, la domanda fatidica e cruciale, quella un po’ stupida, forse, ma a questo punto impossibile da fuggire: Kendrick Lamar sta apportando novità al mondo dell’hiphop? Sta facendo qualcosa di veramente originale nel rapgame?
È impossibile rispondere ora, anche se mi verrebbe da dire che no, tecnicamente e oggettivamente non ci sia poi tanto di nuovo nei suoi lavori. A livello di spirito, però, di messaggi, K.dot sta facendo qualcosa di enorme, come è stato per Tupac, Biggie, Mos Def, il Wu-Tang Clan e chi più ne ha più ne metta.

Sento di poter affermare che Kendrick Lamar potrebbe ergersi a leader in ogni epoca; il suo presente, però, è nell’America di Trump, nel mondo che si dichiara guerra ogni giorno, e lui questo presente lo sfida all’ultimo sangue, a colpi di penna, perché: “Just remember, what happens on Earth stays on Earth!”.
Sento di poter affermare che tra qualche anno ci staremo raccontando di come un ragazzo venuto da Compton sia riuscito a combinare qualcosa di buono su questo pianeta con il solo utilizzo della musica.
E allora sì che lo esclameremo anche noi:

DAMN.

Tracce consigliate: DNA., GOD., ELEMENT.