Un release-party esclusivo sui monti del Wyoming, 7 tracce, 23 minuti, un’eloquente copertina creata al cellulare sulla via dell’evento stesso: questo è ye, l’ottavo album di Kanye West.

Ricordate i fasti del Madison Square Garden? I folli sproloqui su twitter? L’appoggio e le visite a Trump? La sparata sulla schiavitù? Non che ora tutto ciò sia stato archiviato, né tanto meno cancellato o scusato, ma, dopo l’ascolto del disco, si ha la sensazione di un certo auto-ridimensionamento da parte del personaggio musicale più chiacchierato degli anni ’10. Sembra (e, sinceramente, spero) che Kanye sia giunto ad una svolta: è come se l’ostentazione spasmodica ed ego-riferita degli ultimi anni sia stata messa da parte in favore della nuova consapevolezza che gli sbagli, la caducità e le debolezze fanno parte dell’essere umano e di lui stesso (non era così scontato considerando il soggetto in esame). Il re è nudo, parla a ruota libera toccando, in un liberatorio flusso di coscienza, temi delicati quali pensieri suicidi, dipendenza da droghe e farmaci, infedeltà ma anche amore e riconoscenza verso la famiglia, solitudine, paura. Tuttavia “quel” Kanye fa nuovamente capolino in alcune occasioni, definendo, con una spocchia che suona irrispettosa, il proprio bipolarismo un superpotere e non una disabilità, o scadendo nella stereotipata e becera visione della donna-oggetto tipica del rap, ancor più insensata considerando che Ye stesso si dice preoccupato per la futura vita sessuale delle figlie. In generale, però, quello che traspare dai testi, è un Kanye sincero, onesto, ben lungi dal proclamarsi un dio.

La musica, ovviamente, segue quello che è il mood delle liriche. Mr. West crea un’atmosfera facilmente accessibile, familiare, un salotto confortevole in cui confidarsi, delineando melodie che si collocano tra soul e pop, figlie legittime di The Life Of Pablo e lecitamente accostabili all’ultimo Frank Ocean. I beat sono minimali ma arricchiti con elementi di tono che richiamano l’attenzione, i sample sempre egregi e, come da tradizione, non pagati – emblema di ricerca è quello rubato, per davvero, alla traccia di apertura di mono no aware, splendida compilation di PAN. Come da copione, anche la lista degli ospiti alle collaborazioni è folta: Mike Dean, Francis and the Lights, Ty Dolla $ign, PARTYNEXTDOOR, Jeremih, Kid Cudi, 070 Shake, Valee, Nicky Minaj, John Legend e altri ancora. 

Non c’è però nessuna hit, nessuna traccia rincorre la megalomania sonora; è tutto semplice, a tratti fragile, e funziona bene. Estro pacatissimo e easy-listening per accontentare mente e udito, ricetta perfetta per il tasto del replay. In definitiva, un’altra prova sonora per tenersi un posto nell’olimpo dei produttori (considerando poi che ye fa parte di una manita di nuovi lavori prodotti da Kanye, tutti fuori in questi mesi: Pusha T, Nas, Kid Cudi, Teyana Taylor).

Per sottolineare l’ovvio, Kanye è e sarà sempre un controverso elefante in un negozio di porcellana, e parlare di Kanye è e sarà sempre difficilissimo. La componente emotiva di simpatia o antipatia, l’immagine iconica e l’intoccabilità che ne deriva, l’ingombrante personalità pubblica, inficeranno sempre qualsiasi tentativo di un’analisi oggettiva, nel bene e nel male. Proprio per questo, l’ottava fatica di West non è da esaminare oggettivamente, men che meno da astrarre e decontestualizzare rispetto alla vita del suo creatore. ye non è grandioso né geniale, nemmeno un capolavoro, è semplicemente un altro tassello da custodire in una carriera assurda, unica; è la calma dopo la tempesta, un’intima confessione sospirata, il temporaneo e labile sollievo di una mente tanto complessa e geniale quanto tribolata, il disco terapeutico che Kanye aveva bisogno di scrivere per ritrovare se stesso.

ye è uno dei pochi momenti in cui ricompare, finalmente, “the old Kanye” che mancava a molti: il Kanye umano.

Tracce consigliate: Violent Crimes, No Mistakes, Ghost Town