Vi ricordate di Cat Power? Spero di sì perché nel bene e nel male, quest’ultimo conseguenza di una triste decadenza personale ben prima che artistica, è stata una delle personalità e delle voci femminili più intriganti del panorama indie d’oltreoceano. Etichetta di comodo e immeritata quella di semplice musicista indie visto che gli orizzonti della nostra erano (sono?) ben più vasti.
La qui presente Julie Byrne sembra voler raccogliere il testimone della Chan Marshall di medio corso, e senza nemmeno vergognarsene troppo. Poco e niente ci viene concesso di sapere sulla biografia;

Julie Byrne is a Seattle-by-way-of-Chicago-by-way-of-Buffalo singer, songwriter & guitarist whose first album, the ethereal, Rooms With Walls and Windows was released in January 2014. Blending psychedelic & traditional folk elements, Julie creates a highly personal & quietly mystical world that echoes the early work of Leonard Cohen & Vashti Bunyan.

E di quel poco, molto è regno di monsieur Lapalisse dopo un paio di ascolti: palese l’influenza del folk femminile inglese e statunitense anni 70, dalla succitata Vashti Bunyan a  Linda Perhacs passando per Bridget St. John. Sarebbe forse crudele dire che Not Even Happiness, così come il predecessore, è figlio illegittimo di quel decennio senza subire evoluzioni di alcun tipo ma non saremmo nemmeno troppo lontani dalla realtà dei fatti.

Forte di una voce particolarmente intrigante e di un uso del reverbero altrettanto arguto ed evocativo – ai fini voluti – Not Even Happiness scorre placido per poco più di mezz’ora, senza mai smettere di accarezzare l’ascoltatore ma anche senza aver mai l’ardire di fare qualcosa di più di quello che ci si aspetta già.
Fa qui la sua comparsa una seconda chitarra ad arricchire l’aere – Sea As It Glides – e là invece un flauto – Melting Grid. Troppo poco per scalfire la patina di monotonia che inizia ad avvolgere l’album addentrandosi nell’ascolto. Non che sia brutto o spiacevole, non che la qualità del songwriting non sia decisamente ispirata, quantomeno per gli stilemi del genere: il problema è che diventa, rapidamente, tutto un po’ troppo prevedibile. Tanto che viene quasi da pensare che sia più facile apprezzare l’album considerandolo come una sola, unica canzone invece che come una raccolta di brani: in quel caso sì, si apprezza davvero il continuum che parte con Follow My Voice – titolo emblematico per tutto un ascolto – e si snoda lungo le placide rive di Natural Blue
Mezzi sussulti arrivano sullo strimpellare di Sleepwalker o di Morning Dove ma sono soltanto falsi risvegli, tornate a sonnecchiare bimbi.

Scorretto sarebbe invece dire che la seconda opera di Julie Byrne non abbia un’anima; tutt’altro, immergersi nelle acque di questo placido lago partorito dalla mente e dal cuore della giovane cantautrice è un’esperienza di assoluta onestà. Non c’è trucco e non c’è inganno, quello che si ascolta è quello che vuole essere trasmesso. Peccato soltanto che la voglia di ripartire da capo una volta arrivati all’ultima traccia diminuisca di volta in volta.
Album da destinare a giornate invernali di studio o lettura sommerse da flutti di the verde. Per tutto il resto, c’è di meglio – e la Chan Marshall d’altri tempi era tutt’altra cosa.

Tracce consigliate: Natural Blue, Sea As It Glides