Ho provato a scrivere di Singularity subito, di getto, con le orecchie ancora calde e fumanti dai primi ascolti, ma non ci sono riuscito. Mi rendevo conto, e tuttora è così, che il disco mi richiedeva una calma sempre maggiore, una attenzione via via crescente. Già nel 2013, con l’acclamato Immunity, Jon Hopkins ci aveva abituato ad una esperienza d’ascolto immersiva, totalizzante, che non guarda in faccia all’inesorabilità del fluire temporale. Ma se Immunity, anche nei suoi momenti più eterei, rimaneva perennemente inchiodato al suolo, Singularity, al contrario, tende infinitamente verso il cielo in uno slancio cosmico che vuole essere fotografia di momenti d’estasi extrasensoriale – il disco nasce proprio come racconto di un percorso di meditazione trascendentale combinato a esperienze psichedeliche controllate, a scopo terapico, vissuto dallo stesso Hopkins tra una clinica in Olanda e il deserto.

Il viaggio inizia con la titletrack, proprio alle porte del deserto, con un arpeggiatore che si palesa nell’esatto momento in cui il vento si placa e il pulviscolo sabbioso si posa al suolo, al tramonto: è un nuovo mondo che si svela. Da qui e per il trittico successivo (Emerald Rush, Neon Pattern Drum e, culmine, Everything Connected) va in scena un rave cosmico e universale, rave d’estrema fisicità, di danze sfrenate e incontrollabili, di staticità e climax al cardiopalma. L’istinto umano/animale si manifesta in quelle pulsazioni techno che già 5 anni fa ci avevano ammaliato, ma non vi è nulla di esagerato, è sempre tutto sotto controllo e cristallino. Anche nei battiti e nei bpm più spinti di queste composizioni da dancefloor sono rintracciabili elementi astrali, siano essi incarnati in singoli suoni pregni di simbolismo uditivo o in pause, intermezzi o code, più propriamente ambient e riflessive.
Nonostante questo, però, l’eccessiva rincorsa verso l’eccellenza e la pulizia di un mix creato in camera iperbarica, mescolata per altro a una smaccata somiglianza sonora e d’impalcature verso i lavori precedenti (Open Eye Signal e Collider su tutti), rischiano di rendere asettici, quasi neutrali, dei brani che vorrebbero farsi carico di uno slancio emotivo molto forte. Non fraintendetemi, è tutto veramente (forse troppo) perfetto e in sede live / clubbing, gli impianti, le orecchie e i piedi chiederanno pietà, ma sono convinto che la bellezza sublime di Singularity si celi in gran parte nella seconda metà del lavoro, quella più pacata e silenziosa, quella in cui l’umanità di Hopkins può trapelare e agire indisturbata, senza essere costretta in rigide e sistemiche intelaiature di genere.

Stremato da mezzora di ridde allucinate, il viandante stramazza al suolo e si gode la volta celeste nella sua inenarrabile immensità, col battito cardiaco e il respiro che via via ritornano regolari grazie all’ausilio di cori angelici (Feel First Life), di un semplice e delicato pianoforte (Echo Dissolve), di luminosi synth a cascata e percussioni addolcite (C O S M). I dodici minuti della splendida ed emozionante Luminous Beings fanno poi risollevare l’ascoltatore con il loro incedere gentile, con una melodia ipnotica e ricorsiva che invita a pensare all’esperienza appena vissuta, talmente pregna di suggestioni e contraddizioni che necessita di cinque minuti ancora, di pianoforte ovviamente, per essere metabolizzata (Recovery).

È proprio in questo preciso istante che tutto appare chiaro: Singularity è stato un peregrinare nell’inconscio, nella psiche, negli istinti più bassi e più alti dell’essere umano. Quel nuovo mondo che si svela all’inizio del percorso è, semplicemente, un uomo che si guarda dentro volgendo gli occhi verso l’alto, verso l’ignoto. In questa tortuosa scoperta dell’io, Jon Hopkins fa cosa rara oggigiorno, assumendo il ruolo di guida, di sciamano e, soprattutto, di grande compositore, standoci a fianco e conducendoci per mano grazie alla sua personalissima arte sonora.

Tracce consigliate: Luminous Beings, Feel First Life, Neon Pattern Drum