Dopo aver concluso una più che decennale carriera da leader e vocalist dei Czars, John Grant pubblicava nel 2010 il suo pluri-acclamato debutto solista, Queen Of Denmark, racconto della difficoltà – e delle conseguenze – di essere omosessuale in una famiglia conservatrice americana. Un disco intriso di songwriting seventies proveniente da una classica e solida base baritono-pianoforte/chitarra acustica, arricchita ora da archi ora da fiati, sporadicamente infarcita di una venatura synth-pop attraverso il fraseggio di una tastiera.

Nel 2012 John scopre di essere positivo all’HIV e si ritira nelle lande desolate d’Islanda, a Reykjavík, per registrare questo Pale Green Ghosts avvalendosi dell’aiuto di alcuni collaboratori, tra cui spiccano le backing-vocals di Sinead O’Connor e la produzione di Birgir Þórarinsson, componente dei Gus Gus – gruppo islandese di musica house ed elettronica.
E proprio qui sta la svolta che non t’aspetti: parte la prima traccia, la titletrack, e ti accorgi subito che il cantautorato è stato abbandonato, i piccoli e fugaci accenni sintetici dell’esordio si sono evoluti sino a diventare basi elettroniche, bassi vibranti accompagnati da drum-machine ed echeggianti assoli di tastiera. L’atmosfera che pervade la traccia – e il lavoro in toto – è oscura e occludente, nei passaggi orchestrali di archi e fiati addirittura inquietante, ovviamente influenzata dalla scioccante scoperta della sieropositività. È un’elettronica minimale, ridotta all’osso, che richiama alla mente tanto il vintage 80s, quanto i lavori contemporanei di Trentemøller e Grimes, delineando un immaginario visivo degno del Lynch più contorto. Lo stesso trend prosegue, sebbene più danzereccio, in Black Belt e si fatica a non pensare ad una dancefloor buia, oscura.
Quando i fan di Queen Of Denmark avevano ormai perso tutte le speranze, ecco fare capolino una chitarra acustica che preannuncia il ritorno del cantautorato delle origini: GMF è tutta un brivido di sei corde e voce con riverbero che scorre lungo la schiena; “I am the greatest motherfucker that you’ll ever gonna meet” dice John e nulla mai fu più poetico. Vietnam ha l’incedere marziale dell’agonia senza conforto, perché “Your silence is a weapon, is like a nuclear bomb”. It Doesn’t Matter To Him è un’altra ballata acustica di floydiana memoria che chiude questo trittico di pure emozioni con un minimale ed esteso assolo di Moog.
Why Don’t You Love Me Anymore è la chiave di volta del disco: torna l’elettronica e le atmosfere si fanno ancora più claustrofobiche dell’opener, il delay sulle percussioni rende il fiato corto, il baritono di Grant, freddo e rimbombante, seguìto come un’ombra dalla voce di una O’Connor in versione amante di Dracula, racconta la fine di una storia d’amore che degenera ossessivamente e che lascia presagire una bramosia malsana; la conferma di un epilogo tragico ci è data dalle sferzate industrial-sintetiche del finale, che in quanto a cattiveria non hanno nulla da invidiare ai Prodigy di Fat Of The Land.
A seguire tre tracce elettroniche che attingono ispirazione da diversi ambiti: si parte da You Don’t Have To, un electro-pop vintage e lento che racconta  ancora di amori dolorosi, passando poi per la wave di Sensitive New Age Guy, che dietro all’apparente ballabilità nasconde la storia del suicidio di un amico, arrivando infine ad Ernest Borgnine in cui John confessa la sua sieropositività, mentre un sax doloroso spezza il cuore.
Non c’è però da stupirsi se temi così delicati e autobiografici vengano filtrati attraverso sonorità che parrebbero poco consone, poiché proprio queste ultime vanno a pescare direttamente dal vissuto dell’artista e dai suoi ascolti giovanili: Bronski Beat, Ultravox, New Order, Yazoo e Depeche Mode.
È il momento di chiudere l’opera e gli incaricati di questo arduo compito sono nuovamente due pezzi “pop”. I Hate This Town inizia al piano e svolta guizzante sul ritornello, ricordando le tematiche d’odio per la propria comunità già espresse in Queen Of Denmark (“You know I hate this fucking town, you cannot even leave your fucking house”). Glacier chiude tutto egregiamente con un connubio straziante di pianoforte, voce e archi; sette minuti e mezzo di un’intensità rara, unica.

Pale Green Ghosts è la battaglia di un uomo che cerca di aggrapparsi con le unghie al ciglio del precipizio, anche se sa che cadrà inesorabilmente. Un concentrato di emozioni talmente denso da far male, un’angosciante ribellione che autodistrugge da dentro.
Un’opera toccante e di una maestria indiscutibile. Un disco da ascoltare, da vivere, da far pulsare dentro. Un disco che imprigiona e non lascia vie di scampo.

Tracce consigliates: Glacier, Why You Don’t Love Me AnymoreErnest Borgnine.