È da un annetto a questa parte che due correnti ben delineate si sono fatte spazio nella scena indipendente italiana, e sono i calderoni che – con tutte le generalizzazioni sbagliate del caso – potremmo semplificare con “indie pop” e con “emo”. E se vi siete mai chiesti cosa accadrebbe se queste due scene si fondessero, probabilmente il risultato sarebbe qualcosa di molto simile a Solstizio.

La storia de I Botanici, quartetto beneventano, è abbastanza recente: con un EP alle spalle (Demo in Ciabatte, del 2015), vengono notati da Alberto ‘Bebo’ Guidetti de Lo Stato Sociale che decide, con Garrincha, di produrgli il disco di cui siamo qui a parlare oggi; nel frattempo la band condivide il palco con alcuni dei nomi più chiacchierati degli ultimi anni (Fast Animals and Slow Kids, Pan del Diavolo, GOMMA) e, qualche tempo più tardi, annuncia Solstizio con il primo singolo Magari Sì, che in poco tempo ha fatto il giro delle bacheche Facebook di mezza Italia mettendo in moto la famigerata macchina dell’hype.

La formula di Solstizio è semplice e per questo funziona: declinare le schitarrate punk-rock ereditate dai Gazebo Penguins e dai FASK, passando per gli Zen Circus e i Management del Dolore Post-Operatorio, in salsa decisamente pop. È pop il gusto per la melodia laddove non lo sono gli arrangiamenti, ma non solo; sono pop le rime raramente lasciate sciolte anche a rischio di sembrare stucchevoli, è pop la ripetizione dei versi, specie del titolo, specie nel bridge e sui finali di canzone: una struttura osservata religiosamente in brani come C’Avremo Tanto da Fare, Non Sbaglio Più e Magari Sì, ed è una struttura che funziona. Solstizio funziona perché è un album che suona bene (ce li sentite anche voi i Mineral e i primissimi My Chemical Romance in Amori Botanici e Magari Sì?) ma che non manca mai di concedere il singalong, ed i testi di Mirko ‘Fons’ Di Fonso sono furbi sia perché pensati per essere immediatamente ricordati e urlati sotto al palco, sia perché toccano un certo immaginario post-adolescenziale che ne rende facile l’immedesimazione oltre alla condivisibilità sui social media in forma di fan art (“c’avremo tanto da fare e da dimenticare”, “ti ho visto con uno che sa di me”, “ti leggo ancora tra le righe dei miei romanzi”). È forse questo, fra tutti, l’elemento più smaccatamente pop. A mischiare le carte ci pensano poi Solstizio d’Inverno, un brano quasi strumentale se non per un inciso in spoken word, l’incursione suggestiva di Bebo (in veste di Max Collini?) in Tenda per Due, e il gran finale acustico riservato a Io Non Credo.

Solstizio riesce ad impacchettare tutto ciò che serve ad un album per diventare virale nella scena dell’indie pop (più che in quella emo), e alcuni di noi potrebbero accontentarsi di questo: il disco piace e piacerà. La viralità è però a doppio taglio, e chi di noi ha uno spirito più critico non può che riconoscere, nei Botanici, un potenziale volutamente silenziato per essere asservito agli stilemi più faciloni del pop. I brani, così facilmente canticchiabili, sono anche potenzialmente dimenticabili, e i testi di Fons, sebbene attingano dalla stessa fonte di Sologni e Romizi in quanto a coralità, mancano ancora della lucidità, della profondità d’intenzioni e del potere catartico di brani come Senza di Te o A Cosa Ci Serve. Solstizio è un esordio ben riuscito, ma il talento dei Botanici va ben coltivato (ecco, mi ero ripromessa di non usare questa metafora… scusate).

Traccia consigliata: Tenda per Due (Arpenaz XL)