Le Honeyblood sono un duo della scozzesissima Glasgow in cui, foto alla mano, si può subito notare che il 50% è composto da fighe, in particolar modo la parte mora. Estetica a parte, le due tipette sono anche abbastanza talentuose tanto da farsi notare dalla Fat Cat che subito mette loro a disposizione niente meno che Peter Katis, storico produttore di Interpol The National; mica male per delle sbarbine alla prima esperienza. Le Honeyblood sono un gruppo old school per certi versi,e non è difficile immaginare che l’album sia stato registrato in dieci giorni. Eh sì, immaginate la faccia di mr. Katis, memore delle interminabili sessioni con il caro Matt Berninger e il suo migliore amico (il vino) o dei tre anni che hanno impegnato gli Interpol per partorire quella schifezza che reca il loro nome che ci regalarono quattro anni fa, quando si è trovato ad avere a che fare con due tipe che chiacchierano poco e macinano tanto.

Honeyblood (once again, che originalità gente!!1!1!!)  si apre con la schitarrata acida e cruda di Fall Forever, due accordi e niente di più prima dell’attacco di batteria: struttura semplice e lineare, intro-verse-chorus-bridge e così via. Le due tipette non sono troppo sofisticate, sono dirette, e così si può dire subito dopo di Killer Bangs che col suo ritornello “I don’t wanna have to go on without you, but i have to” ci narra di un difficile abbandono, tutto in una chiave punk squisitamente femminile. Se poco prima ci tenevano a mostrare il loro lato tenero, in Super Rat viene fuori l’anima bipolare tipica da PSM con frasi che suonerebbero chiare anche a chi alla domanda “Do you speak English?” risponderebbe “From Italy“: il malcapitato protagonista di Super Rat si prende infatti infamate del calibro di “I will hate you forever” e “You really do disgust me“, dopo essere stato, di grazia, paragonato ad un super topone (lasciatelo dire, sei proprio un coglione). Gli animi si placano un pochino, nei fatti non nelle parole, in Anywhere But Here (I’d rather be), una delle gemme dell’album, malinconica e pacata: il basso è studiato a tavolino per controbattere dolcemente la chitarra che per una volta si presenta quasi pulita, mentre i testi come al solito raccontano di un abbandono non voluto e di una fuga da un posto odiato. I toni e le melodie tornano più sempliciotti con la doppietta Biro Bud prima di Choker, in cui ancora una volta in una struttura di scuola Nirvaniana Stina Tweeddale se ne esce con l’equivalente anglosassone del quod me non necat me certe fortiorem facit ossia “what doesn’t kill you / just makes you stronger” ripetuto fino alla noia. Tutto si chiude con Braid Burn Valley, una lenta e tenerissima ballata, per lo meno per 2 minuti, fino a quando Stina si ricorda che il suo miglior amico è un DS-2 della Boss e decide di distorgere tutto un po’ (A CASO); tutto dimenticato con la hidden track (ha ancora senso fare le hidden track nel 2014? evidentemente sì) di sola voce e piano.

Che il suono sia un po’ grezzo per scelta o per inesperienza non ci è dato saperlo; quello che possiamo constatare è che le Honeyblood ci hanno regalato quaranta piacevolissimi minutini di pop-punk nella sua accezione più positiva del termine.

Traccia consigliata: Killer Bangs.