È un album dei primi anni Dieci che suona come un album degli ultimi anni Zero nostalgico dei primi anni Zero in cui si era nostalgici degli anni Ottanta ma adesso siamo ancora così nostalgici degli anni Ottanta che il suono così anni Zero di questo album può far storcere il naso così tanto da trasformare il grugno in un sorriso. Mi seguite? Certo che no. Allora mettiamo le cose in chiaro: il self-titled degli Holograms un disco indie rock devoto a un certo post punk revival, ma che non disdegna ammiccanti virate electro pop, suona come un disco dello scorso decennio (in alcuni punti sembrano voler ricordare i primi Bloc Party, si veda Apostate), ma suona anche come quello che sarebbero potuti essere gli Iceage se fossero stati meno cazzoni e casinisti e più (aggettivo-qualificativo-a-caso-)wave, con qualche trovatina interessante in più e diversa eccitazione in meno. Poi c’è l’etichetta che è garante di una certa coolness, laddove gli ingredienti del disco, a scatola chiusa, potrebbero promettere puzza di stantio.

Malgrado alcuni pezzi minori (Transform, A Tower e Stress, soprattutto nel dimenticabile solo di synth di quest’ultima), l’album viaggia su una qualità piuttosto alta e ci sono diversi ottimi momenti come le sensazioni dark trascinanti dell’iniziale Monolith, gli episodi post-punk riuscitissimi di Orpheo e You Are Ancient e le sbandate electro pop di Chasing My Mind, ABC City e Fever: quest’ultimo aspetto della band è forse il più amabile e dimostra il grosso pregio degli Holograms di riuscirsi a far apprezzare facilmente al primo colpo e di sapersi vendere benissimo. Suona come un disco degli anni Zero, è derivativo più dello stesso concetto di derivata in matematica, ma ci voleva proprio.