Tu bada al senso,
che i suoni sapranno badare a se stessi.
(Lewis Carroll, Le avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie, Cap. IX)

Holly Herndon è già impeccabilmente riassunta nella fisionomia del suo volto, nella somma dei lineamenti di questo e nel loro atteggiarsi; nei capelli color melograno, spesso raccolti in una treccia, insieme agli occhi color ghiaccio, che, come su una tavolozza, seppur nell’impressione visiva forte, si mostrano armonicamente. In senso prospettico, poi, l’immagine della compositrice del Tennessee, è così ricca da risultare ancor più irreale e fiabesca, immaginaria e virtuale. Lo stesso può dirsi di Platform, il suo ultimo lavoro, che, seppur possegga un’ossatura di latta, ha un carattere intensamente umano e carnale.

La relazione uomo-macchina, che in Movement poteva dirsi asimmetrica perché considerava l’uomo in uno stato di latenza, nel secondo album della Herndon raggiunge un equilibrio tale per cui le due parti sono l’una l’estensione dell’altra. In Platform, dunque, il termine “artificiale” non è considerato solo e per forza nella sua accezione negativa. In questo, la tecnologia è infatti pensata dalla produttrice statunitense come un fattore esogeno che non necessariamente degrada la vita umana, ma che anzi, se propriamente interiorizzato, può migliorarla. Il messaggio innovativo e innovatore, di cui Holly Herndon si fa annunciatrice, non è però certo questo. La chiava di lettura nuova è, invece, circa lo strumento macchina, che deve ritenersi parte psichica dell’uomo, una sua seconda natura. Allora, secondo questa prospettiva, l’uso di una tecnologia può arricchire la psiche umana, espandere lo spirito, intensificare la vita interiore; e la Herndon, in Platform, ci riesce impeccabilmente.

L’ultimo suo lavoro è allora un monolitico insieme di più parti; e l’esempio emblematico di ciò è Chorus: una traccia che è una bolgia di break interrotti e distorti, di suoni campionati dal browser e di voci che, seguendo la scrittura, si acuiscono per poi strozzarsi. Lo stesso può dirsi dell’opener Interference, come dell’intero album. Il quale poi, al suo interno, vede accordate magistralmente le bassezze del club e l’ortodossia accademica, soprattutto quando tra bassline molli e ritmi spezzati si ergono corpi vocali come riflessi di una luce quasi liturgica ed eterea un attimo prima, e come fragori spettrali un attimo dopo (Unequal, New Ways To Love e An Exit). Tracce, poi, stridenti come denti che digrignano (DAO) si uniscono perfettamente a brani più euforici e all’insegna di un timido ma non melenso electro-pop (Morning Sun). È come se, durante l’ascolto, regnasse un senso di ingovernabilità misto a precarietà tanto umano da risultare intimo, viscerale; tanto umano, inoltre, da essere indigesto alla pancia dell’internet gravida di artisti induriti e ingobbiti su sequencer logici inanimati.

La grandezza espositiva e narrativa di Platform, e l’intelligenza compositiva della stessa Herndon, vengono però fuori in brani dal suono anarchico ma dal significato profondo; e le numerose collaborazioni con il suo partner, o con teorici, parolieri e artisti di vario genere concorrono in Locker Leak, Home e Lonely At The Top perché il profilo del più ampio lavoro possa essere ancor più ricco. Locker Leak è indecifrabile come i gargarismi vocali e i ritagli nonsense dei testi che la compongono; spoglia la parola del suo vestito comunicante e mira così all’estetica del gioco di parole, con l’intento di irridere il linguaggio istituzionale e formale. Home dal canto suo, che tratta il delicato tema della sorveglianza sempre più penetrante e ossessiva operata nel quotidiano dall’NSA (un organismo governativo degli Stati Uniti d’America), è come fosse, in apertura, imburrata e unta dal catchy pop che accompagna le parole I can feel you in my room / why was I assigned to you / I feel like I’m home on my own, per poi essere schiacciato dal rumore cupo e rombo come di una frana; dopo nuovamente il testo I want you to show your face; I know that you know me better than I know me. Lonely At The Top, infine, è un brano solo parlato prodotto in collaborazione con Claire Tolan, che indaga, anche con un filo di ironia, il fenomeno dilagante su canali YouTube dell’ASMR – un impulso emotivo provato in seguito ad un brusio, a delle voci appena accennate, oppure provocato dal fruscio di un rastrello che accarezza la sabbia – per alcuni ritenuto una sorta di orgasmo cerebrale, per altri una terapia che libera la mente se stressata. Ciò su cui vale la pena soffermarsi, in relazione a queste tre tracce, è l’abilità indiscussa di Holly Herndon di unire tratti tipicamente femminili, e per questo stigmatizzati, come per esempio la risposta autonoma del meridiano sensoriale (ASMR) e lo spoken word (spesso associato a movimenti femministi e presente in Locker Leak), a campi per definizione propri del sesso maschile, quali la politica governativa o la musica elettronica stessa.

Ed anche per questo Platform è un album, seppur caotico, lungimirante; e lo stesso può essere detto della Herndon, che è insieme paradossale e sagace. Così come dei suoni che, pur badando a se stessi, colgono appieno il senso.

Tracce consigliate: Chorus, An Exit, Home.