Quella di Ghali è una storia curiosa, la cui estrema sintesi potrebbe essere: dopo aver provato a sfondare con una major e aver fallito per evidente mancanza di capacità, Ghali riacquista notorietà attraverso una serie di singoli prodotti principalmente da Charlie Charles, con cui aveva già collaborato in passato e che nel frattempo era diventato “il re mida” del rap italiano (leggendo i giornali ed i commenti su Youtube si trovano appellativi anche più stupidi, volendo). Grazie ai testi immaginifici, divertenti, pieni di iperboli assurde ed autoironia, ritornelli ossessivi e video curatissimi, tutti i singoli vengono ascoltati visti decine di milioni di volte. Una buona fetta del pubblico è composto da adolescenti avvicinatisi da poco al rap ormai esploso anche in Italia, ma molti altri Ghali lo conoscevano già e si sono ricreduti.

L’annuncio di un album arriva dopo oltre un anno di singoli, pubblicati in totale autonomia e senza un vero progetto dietro. I dubbi più grossi riguardavano la presenza nel disco di pezzi già pubblicati (ce ne sono tre), la qualità delle produzioni (Charlie ne sbaglierà una?) e quella dei testi.
La scrittura di Ghali è contemporaneamente il suo punto di forza ed un facile bersaglio per le critiche. La cosa più evidente è la mancanza generale di senso, di un argomento in particolare o di un messaggio. Leggendo i testi, ma anche ascoltandoli, si può avere a tratti l’impressione che siano semplicemente deliranti e che non sia stato fatto il minimo sforzo per dare forma o coesione ai pensieri. Un’impressione legittima, ma che è dovuta alla stessa superficialità che si rinfaccia a Ghali.
Nell’era in cui perfino la politica si fa su Twitter, in cui i pezzi diventano sempre più corti e più ripetitivi, l’idea di dedicare un’intera canzone ad un unico argomento può sembrare ridicola. L’insieme di immagini, battute e versi che si mescolano nei testi di Ghali è invece attuale e funziona bene, soprattutto grazie ad un’abilità interpretativa notevole se confrontata con il resto della “scena”, un ammasso di versi monocordi o in autotune.

Alcune cose forse passano il limite ed entrano effettivamente nel nonsense (“fammi un applauso con i piedi, ora che sono ancora in piedi” ), ma sono bilanciate da altre che riescono a condensare significato ed originalità in frasi brevissime (“[Lei] prende il meglio di me come il colonialismo” conclude la prima strofa di Liberté). Nel disco si trovano meno spunti interessanti rispetto ai singoli che lo hanno preceduto, cosa inevitabile per un disco scritto e pensato in pochi mesi come questo, ma che non impedisce di notare alcune cose, tra tutte la semplicità e l’ottimismo della narrazione. In Habibi fa un elenco di cose che gli piacciono: fumare, viaggiare, mangiare bene, guardare documentari. Ci sono frasi ricorrenti sull’incapacità di mantenere i propri propositi, sui cartoni animati e i programmi televisivi, sui mezzi pubblici e sull’essere musulmano. Ghali non è certo l’unico rapper musulmano della scena, ma è forse il primo a parlare della propria religione come di un tratto di sé stesso, qualcosa di quotidiano, alla pari del resto.

Le produzioni sono leggere come i testi e funzionano altrettanto bene, ma anche in questo caso ci si muove su di un filo sottile tra i suoni da hit e cafonate. Come già visto in Sfera Ebbasta, Charlie Charles si affeziona facilmente a certi suoni e li ripropone senza problemi. Molto spesso inoltre le strumentali sono praticamente tre note di piano/ un riff di chitarra con delle batterie più o meno identiche, ogni volta. Ora, tutti i pezzi creano una dipendenza fastidiosa e portano a schiacciare replay una decina di volte prima di ascoltare altro, è evidentemente questo l’obiettivo, ma almeno un kit di percussioni diverse si potrebbe trovare no? Almeno una volta.

Una cosa che probabilmente nessuno aveva previsto è quanto il disco suoni pop. Non perché sia interessante tracciare delle distinzioni tra i generi, ma proprio perché di rap (o trap) in questo album c’è poco e niente, se non l’idea di fare le rime. Ghali viene da un certo ambiente e si vede, ma con Album ne prende le distanze, in maniera più o meno consapevole. Ci sono alcuni momenti deboli come Oggi no e Milano (che ricordano i recenti Coez o Fibra). Non stupisce che un brano come Happy Days sia piaciuto tantissimo a Jovanotti o che nella stampa più generalista venga spesso accostato a Fedez (paragone impietoso a dirla tutta).
Album è un disco con degli alti e dei bassi – un po’ sotto le aspettative per certi versi. Ma è un ottimo punto di partenza per Ghali, che si è dimostrato più bravo e maturo di quanto non sembrasse, riuscendo ad avere un seguito incredibile senza nessun tipo di promozione o etichette alle spalle, facendo semplicemente quello che voleva.

Tracce consigliate: Ninna Nanna, Boulevard