150722-fuzzAnno: 2015
Etichetta: In The Red Records

Simile a:
Leaf Hound – Growers of Mushrooms
High Tide – Sea Shanties
Black Sabbath – Paranoid

Epsilons, Party Fowl, The Traditional Fools, non sono che alcuni dei progetti nei quali l’instancabile Ty Segall ha militato. Poliedrico e polistrumentista, l’artista ventottenne sforna album con la facilità (e probabilmente per la stessa necessità) con la quale i comuni mortali respirano. Presa coscienza del fatto che la sua assenza dalle scene per più di sei mesi viene sentita dal volgo come presagio di incredibili sventure, dopo aver fatto un bagno ringalluzzente nelle acque dell’Adriatico antistanti l’Hana-Bi, accompagnato dai prodi Chad Ubovich (Meatbodies) e Charlie Mootheart, Ty Segall è tornato a noi con una cornucopia di brani infiocchettati con ispirazioni dal gusto storico, quasi citazionistico, che spaziano da influenze heavy metal, psichedeliche, progressive blues, senza sdegnare del sano garage, influenze raccolte sotto il nome di -sorpresa sorpresa- II: il secondo album del portentoso trio californiano, lungo – udite udite –  il doppio del primo, del resto”go big or go home“.

Time Collapse II arriva di soppiatto, svelandosi come una dichiarazione d’intenti: durante l’ascolto il basso ruggente di Ubovich sferrerà attacchi alla vostra salute mentale, mentre i riff pesanti di Mootheart vi condurranno in profondi stati di paranoia nel folle tentativo di dare un nome a quei suoni così squisitamente passatisti, il tutto retto dai colpi di cannone che Segall sferrerà dalle retrovie alla batteria.
Let It Live, più di altre tracce, porta con sé le sonorità più tipicamente garage à la Segall (tant’è che troverebbe posto in uno qualsiasi dei suoi progetti) e ciononostante i cori melodiosi ed il riff infinito la fanno da padroni, rimanendo saldi come megaliti anche nelle variazioni costanti.
Più a fondo e più a lungo il trio ha scavato nella realizzazione di questo lavoro, tant’è che i suoni si tingono di tinte ben più scure se paragonate al precedente Fuzz, Pollinate e Pipe sono infatti alcuni dei momenti più palesemente heavy, così Black Sabbathiani da far sorgere spontanee delle domande sulla paternità dei brani – che però si chiarisce immediatamente ancora una volta grazie a quei così distintivi cori.
Say Hello cavalca di nuovo onde seventies ma concedendosi a quel ramo più distintamente psichedelico, l’intro richiama atmosfere fosche in stile Apocalypse Now (mi sto riferendo alla scena della morte di Kurtz), per poi concedersi un cambio di stile nel cantato: “Standing there with the nameless and hear the silent cries, look above at the ceiling, realize accept your plight”, mentre Burning Wreath si lancia in una svolta più prog/brit-blues, senza che gli anni ’70 abbandonino mai il pentagramma.
Sleestak è una sorpresa, traccia breve ma intrigante grazie a quei synth quasi sci-fi che aggiungono una nuova texture alle sonorità del trio.

Le tracce si susseguono l’una all’altra in totale armonia, fluiscono liscie, pulite, facendo perdere la cognizione di quanti brani si abbia effettivamente ascoltato, e facendo però sorgere numerose domande: riesce questo disco ad andare oltre alle numerose citazioni dal passato? Riesce il trio californiano ad apportarvi qualcosa di personale? La risposta a queste due domande è un sospesissimo nì. Però, alle domande: è ben eseguito? Vale la pena ascoltarlo? La risposta è un sì deciso, perché resistere a tanta adrenalina, no, non si può.

Tracce consigliate: Let It Live