Parlare di Forest Swords e del suo secondo album, Compassion, è parlare di un album che non parla ma che, quasi sempre, al massimo mormora o gorgheggia qualcosa di incomprensibile, di esoterico; il seguito di Engravings si è fatto attendere quasi un lustro ed ora che è qui rimane all’ascoltatore interpretarne i solchi. Mentre fruirne anzi goderne è fin troppo semplice, un’interpretazione clinica e critica è resa se possibile ancora più difficile dal particolare spirito con il quale Matthew Barnes ha dato vita alla nuova creatura.

– Musically, Compassion sometimes borders with cinematic music and makes use of many organic textures. Almost everything feels real—I mean recorded with a person in your studio—and not just sampled. What’s the intention behind this creative choice?

– Some of it is not as real as it might sound. Virtual instruments and plugins have got so sophisticated that you can pretty much pretend to be anything to some degree. But there’s always something slightly wonky about it, which I love—something that you can’t put your finger on.

Sorta di gioco di scatole cinesi o di maschere su maschere: parlare di musica reale e non reale sembra ed anzi è anacronistico. In questo caso conviene piuttosto considerare il fine: la maschera del reale è calata con precisione fino al punto di oltrepassare quel confine che, non colto dall’orecchio ma solo dal cervello, porta a scivolare in una sorta di uncanny valley del sonoro.

Barnes ammette quindi di mentire spudoratamente e (lo) fa benissimo. Gioca con l’inquietudine sul filo del rasoio ma lascia aperte porte verso un cauto ottimismo, spiragli di luce in poco meno di un’ora di buio cupissimo ma non cupo abbastanza da non lasciar intuire dove la mente dietro la composizione voglia andare a parare. Il titolo potrebbe sembrare un esercizio di sarcasmo (così come la copertina, con un moderno Sisifo che, secondo ortodossa interpretazione, pare felice della situazione nella quale si trova) ma non lo è, trattasi semmai di uno dei summenzionati sprazzi di ottimismo.
Compassion stringe come le corde che scivolano e tirano sulla pelle nuda in Panic, ennesimo tributo visuale e musicale al Paese del Sol Levante – forte più che mai qui è l’influenza della musica tradizionale giapponese. Terzo singolo estratto e secondo video, ultimo prima della pubblicazione dell’album, è un susseguirsi di immagini i cui protagonisti rimangono fondamentalmente anonimi, a trovare espressione è una corporeità fine solo a sé stessa e ad un’idea di bello. Suggestioni di sottomissione e possessione fisica, elementi naturali, luci, ombre e colori si fondono in un piccolo capolavoro per occhi e orecchie che è già battesimo e testamento per l’album intero.
C’è una consapevolezza tutta nuova nel suono di Compassion, una maturazione non di poco conto: è tutto più raffinato, meno colpi d’accetta e più lavoro di scalpello, tutto teso a creare l’impalcatura di un lavoro che non vuole cedere al pessimismo esistenziale. La base su cui si è lavorato rimane una miscela elegante di trip-hop, post-dubstep à la Burial e downtempo; quello che già conoscevamo e che era lecito aspettarsi convive però con un appeal nuovo, una sensibilità rinnovata e soprattutto un sottotesto profondo, che non viene espresso direttamente ma che va a toccare tasti nascosti. War It è un buon esempio di come suoni Forest Swords nel 2017: alterna loop elettronici a tamburi altrettanto ossessivi, dal suono “legnoso” e secco come mai prima d’ora. Dov’è il confine tra il reale e l’irreale? A questo punto non importa nemmeno più.
La partita rimane aperta fino all’ultimo e fino all’ultimo Compassion riesce a stupire: non importa davvero interrogarsi nemmeno sulla natura degli archi di Raw Language, sposati in un matrimonio perfetto con i sample vocali, solisti e corali, non vale la pena perdere tempo a farsi domande sulle note di tribalismo elettronico di Exalter. Inutile pensare o cercare di tenere la testa a galla sopra le percussioni e i cori da giorno dell’Apocalisse di The Highest Flood.

Sarebbe tutta energia sprecata: nonostante l’autore si sia prodigato, nelle pur non numerose interviste, a dire qualcosa di più di quello che esprima a parole la sua creatura, Compassion rimane carico di mistero, enigmi che non si possono risolvere e che, in buona sostanza, non vogliamo nemmeno risolvere. Si potrebbero passare ore a strappare maschere su maschere e non si arriverebbe ad una soluzione. Al netto di ogni dietrologia quello che conta veramente è l’immersione nell’abisso, senza dimenticare che la luce è sempre in vista.

Tracce consigliate: War ItPanic, The Highest Flood