Thebe Neruda Kgositsile non è un ragazzo come tanti altri.
Come può esserlo il figlio di un’insegnante universitaria della California e di un poeta e attivista politico sudafricano? Infatti, il giovane, conosciuto con lo pseudonimo di Earl Sweatshirt, può essere definito l’enfant prodige dell’hip hop statunitense. Decisivo per la sua carriera l’incontro con quell’altro bel personaggione di Tyler, the Creator, che dopo averlo scovato su Myspace, lo mette sotto contratto per la sua Odd Future. A soli 16 anni fa uscire il suo album di debutto Earl, che riscuote un buon successo nell’ambiente. Anche se ancora evidentemente acerbo, il giovane fa già vedere eccellenti giochi di parole con una sfrontata naturalezza. Dopo un periodo di esilio forzato in un collegio a Samoa, a soli 19 anni partorisce il suo secondo album, Doris: ricco di ospiti importanti come Frank Ocean, Pharrel Williams e RZA e producer coi controcazzi, ottiene un gran successo di pubblico e viene acclamato dai critici. Va segnalato che oltre alle ottime capacità liriche, Earl  dimostra di saperci fare anche nelle vesti di produttore, non sfigurando accanto a nomi del calibro del già citato RZA, ma anche di The Neptunes e The Alchemist e distinguendosi per i suoi beat sperimentali.
Insomma, oltre che uno dei migliori mc della propria età, Thebe mostra anche ottime doti da beatmaker. Qualità che risulterà primaria  nell’album di cui andremo a parlare, ovvero il suo ultimo, dal singolare titolo I Don’t Like Shit, I Don’t Go Outside.

Arriviamo appunto ai giorni nostri: Earl è in ascesa, ma la cosa non sembra interessarlo più di tanto. Non è un tipo assettato di fama e soldi, è solo un giovane vulcano di creatività che sta passando un periodo buio. Eloquente il titolo, dove sembra mandare a fanculo tutto in maniera quasi adolescenziale.
Un grido di insoddisfazione, un inno al disagio, così potrebbe essere definito questo lavoro; ma anche più semplicemente, il racconto di normali problematiche giovanili, con la particolarità, che, chi le esplicita, lo riesce a fare in maniera creativa e poetica. Questa volta Earl vuole fare tutto a modo suo: non ci sono le collaborazioni illustri dell’album precedente ed è tutto completamente autoprodotto. “I feel like this is my first album. This is the first thing that I’ve said that I fully stand behind, like the good and the bad of it. I’ve never been behind myself this much”. Queste le pesanti parole rilasciate in un’intervista poco prima dell’uscita del disco, le quali fanno capire quanto questo sia assolutamente il suo lavoro più intimo e sentito, dove tutto è come lui lo vuole, senza compromessi. Così parte affogando i dispiaceri nell’alcol con Huey e riallacciandosi all’ultima frase del brano “and I gotta jot it quick cause I can’t focus so well. ” fa partire, appunto, Mantra (parola usata per concentrarsi), dove in un beat più oscuro che mai, riversa la sua inquietudine per gli screzi con l’etichetta che l’ha lanciato e la rottura con la fidanzata. Grief è il primo singolo ed è un autentica bomba: base rarefatta, atmosfera dark, tono depresso ed un outro di pura psichedelia vintage per chiudere in belllezza. Am// Radio ha un beat lo-fi che suscita nostalgia, sul quale il rapper si muove magistralmente in compagnia di uno dei suoi pochi ospiti, Wiki, rapper newyorkese del gruppo hip hop Ratking. Collaborazioni che contraddistinguono anche le ultime tracce del disco: in DNA battiti primordiali si mischiano ad un loop di piano, creando un’atmosfera suggestiva su cui Earl fa i numeri insieme ad un suo amico skater, Na’ Kel Smith. Si finisce con Wool, sempre scandita da note di pianoforte ma meno frenetica della precedente, dove stavolta fa la sua comparsa l’unico nome abbastanza conosciuto, il giovane compagno di etichetta sulla rampa di lancio, Vince Staples, che nel brano fa forti riferimenti agli omicidi razziali. Così si conclude un’oscurissima mezz’ora, in cui Earl riversa la sua angoscia e ci svela tutte le sue paronie: i problemi con la Odd Future, l’ex-ragazza, il peso di essere un personaggio famoso, tutto in un unico calderone, condito in salsa dark e lo-fi.

Forse qualcuno potrebbe trovarlo troppo alienante, perdendosi nel mood incessantemente cupo e nella monotonia della voce del rapper. Qualcuno potrebbe ritenerlo un passo indietro rispetto a Doris, invece è una grossa prova di maturità per Earl: pur facendo tutto da solo il giovane riesce a partorire un ottimo album, con beat alternativi rispetto alla maggior parte della scena hip hop, dandoci ulteriore conferma di essere un eccelso paroliere.
Avrebbe potuto avere nomi grossi al suo fianco, ma ha rinunciato a tutto questo per esprimersi al massimo: una scelta rischiosa e forse anche un po’ estrema, che però ci fa capire di che pasta sia fatto il nostro amico. Ora non ci resta che sperare che si faccia vedere da uno psicologo ed esca da questa depressione, perché vogliamo ancora godere della sua musica.

Tracce consigliate: Grief, Am//Radio.