La fine della relazione con Amber Coffman, lo scioglimento della band, la supposta deriva dell’indie rock: Dirty Projectors è un album d’addio e di rinascita per David Longstreth, già a partire dal titolo eponimo. Dei Dirty Projectors non si sentiva parlare da Swing Lo Magellan del 2012, l’opera con cui la formazione indie rock/folk (già a corto di elementi) si spostava nei meandri di un pop non immediato, ponendo l’ascoltatore in un ruolo attivo e creativo di ricostruzione del prodotto. Con Dirty Projectors, invece, le porte dell’indie rock si sfondano e riformulano, ed i presupposti c’erano tutti: Dirty Projectors è diventato a tutti gli effetti un progetto solista con qualche cameo d’eccezione (l’ex Battles Tyondai Braxton, Solange, Dawn Richards); Longstreth ha passato gli ultimi anni a trafficare con gli artisti e i generi più disparati, da Kanye West a Solange a Joanna Newsom; la rottura con Coffman è stata sia musicale che personale, e Dirty Projectors ne (stra)parla.

Che fosse un breakup album su diversi piani era già chiaro dal primo singolo estratto: Keep Your Name, che apre anche l’album, è il punto di rottura – con Coffman e con le chitarrine. È una rottura sgradevole che sa di sconfitta, in cui Longstreth contrappone pitch down e autocommiserazione sommessa a bridge rap e cinismo; con le campane iniziali e il verso “what I want from art is truth, what you want is fame” si gioca la carta del rancore, senza però mancare di autocritica (“I wasn’t there for you / I didn’t pay attention” vale sia come accusa esterna che come autoriflessione), rancore che si dissipa man mano col disco: in Death Spiral c’è la reazione a caldo, in Up in Hudson la nostalgia, in Winner Take Nothing la resa (“in losing you I lost myself”) ma anche l’accettazione (“I am so myself, I am no one else”), in Ascent Through the Clouds la decisione di ricominciare (“I gotta go my own way”).

Il tessuto narrativo di Dirty Projectors è fitto come lo è la struttura musicale che lo sostiene: come Bon Iver in 22, A Million, l’intento di David Longstreth è quello di partire dalle melodie sicure dell’indie rock e del neo-folk e decostuire, destrutturare, scolpire la forma-canzone soffocandola coi suoni sintetici. Per confermare le dichiarazioni rilasciate prima dell’uscita del disco riguardanti la “morte dell’indie rock”, il sound di Dirty Projectors è imponente perché rifugge dalla trasparenza, talvolta negando e talvolta storpiando i ritornelli. Il falsetto e i loop vocali di Death Spiral si sposano/contrappongono a bassi sporchissimi, i fiati eleganti di Up in Hudson si piegano ad una coda r’n’b d’impronta esotica, che ritorna più tardi nella più poppeggiante Cool Your Heart, mentre Little Bubble e I See You riassestano il disco con delle strutture più lineari – la prima memore di James Blake, la seconda guidata da un organo che richiama (ironicamente?) le campane iniziali di Keep Your Heart.

Kanye West è presente come fonte d’ispirazione plurima: c’è l’ispirazione di base per il breakup album (808s & Heartbreak), c’è il name-dropping (in Up in Hudson), ma c’è soprattutto l’ambizione (con annessa autocritica) di Life of Pablo; come quest’album, Dirty Projectors è un lavoro visionario, cangiante e all’apparenza confusionario, volutamente sporcato e saturato. Nel mezzo degli anni del poptimism, Longstreth è a tutti gli effetti uno degli innovatori a muovere passi verso una nuova forma di pop, un pop più audace, meno passivo, meno rinchiuso, più conscio (anche politicamente). Quello di Longstreth non ha ancora un nome ma qualche suggerimento viene in mente: se hyper-pop è stato già preso e post-pop suonerebbe fuorviante, si potrebbe forse parlare di pop massimalista o addirittura di pop isterico? Quest’ultimo termine mi è venuto in mente mentre riflettevo su Dirty Projectors e su come si colloca nel panorama attuale, ed ho ripensato a L’Opera Struggente di un Formidabile Genio di Dave Eggers – non solo perché, come 22, A Million, è pop che mette i suoni sintetici al servizio del sentimento, ma soprattutto perché, come molte opere letterarie appartententi alla corrente del realismo isterico, non solo si autocelebra e autodistrugge al contempo, ma usa la saturazione, l’eccessività, il massimalismo come espressioni stesse della forma, sia lirica che musicale. In questo senso, Dirty Projectors riesce persino a sviare o ad anticipare le critiche (“a ceaseless ambitiousness proxy for a void he’s ignoring”, recita Work Together), distanziandosi dalle (poche) sbavature usando come arma di difesa l’idea piuttosto che il prodotto. Dirty Projectors è un lavoro che ci lascia a bocca aperta e per ora con molte domande, ma è soprattutto un disco che ci rende curiosi della piega che prenderà il pop nei prossimi anni, e a cui probabilmente torneremo a puntare il dito a tempo debito.

Tracce consigliate: Keep Your Name, Up in Hudson, Winner Take Nothing