“Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti”. Lo dice Pavese ne La Luna e i falò, e Dimartino gli ruba il titolo per il suo terzo album, anche se l’ultima fatica del cantautore siciliano non è solo un inno ai microcosmi disseminati lungo lo stivale. Se ad un primo ascolto viene da pensare che si tratti di un disco incapace di penetrare gli animi di quelli che nella dimensione fisica e sociale del paese non ci sono nati né cresciuti, tra le pieghe delle melodie senza tempo di Un paese ci vuole si scopre invece che la materia in gioco è un’altra. Un confortante e più ampio senso di appartenenza, che non necessariamente ha a che fare con la geografia, permea le dodici tracce di un disco nato in Messico e modellato con cura artigianale tra le mura di una casa siciliana, e parla a tutti quelli che almeno una volta nella vita, magari stipati in un vagone della metro o bloccati nel traffico all’ora di punta, hanno avvertito la sensazione che tutta questa storia della civilizzazione ci sia sfuggita di mano.

Al di là della cornice sonora, fatta quasi esclusivamente di elementi tradizionali, è la narratività empatica ciò che rende Un paese ci vuole un disco estremamente vicino al panorama folk internazionale. Sebbene adagiate su melodie demodè, le liriche dense di Dimartino suonano contemporanee, in un disincanto cosciente eppure sempre in grado di scovare la poesia in frangenti consueti di vita reale, come in La vita nuova e nelle fughe all’estero dei giovani italiani raccontate dallo sguardo inedito e coinvolto di chi resta e li vede tornare indietro.
Se la necessità è quella di raccontare origini e legami viscerali, la sua voce sghemba e impaziente sembra il veicolo migliore. Genuino e sentimentale senza alcun ritegno, gli si perdona ogni imperfezione e non si avverte alcun bisogno di un apparato strumentale diverso. Di Martino non è uno che disdegna le possibilità dell’elettronica (ce n’è in abbondanza nel suo ultimo EP Non vengo più mamma e ancor più nel progetto Omosumo), ma qui la scelta è precisa e non c’è spazio per astuzie artificiali, che si limitano a far da sfondo (Come una guerra la primavera) o imitano carillon (Niente da dichiarare) e svaniscono presto, sopraffatte da archi, fanfare e incontenibili matasse di pianoforte.

Non è un disco da cui aspettarsi peripezie compositive. Il modo giusto è allentare la presa per godersi le fitte al cuore (Stati di grazia è una carezza a cui non si resiste) e la suggestione generata da note capaci di dipingere scenari come certa world music sa fare (Da cielo a cielo). Gli ospiti arricchiscono notevolmente la tracklist: I calendari è un duetto fuori dal tempo con Cristina Donà che sembra arrangiato per Frank e Nancy Sinatra e il timbro corposo di Francesco Bianconi dei Baustelle in Una storia del mare profuma delle estati in paese e dei ragazzi di città che le popolano.
Occhi buoni per osservare storie e poesia per raccontarle: per dirsi ben fatto il cantautorato non ha bisogno di molto altro.

Tracce consigliate: La Vita NuovaUna Storia del Mare