Quando una band non politicizzata presenta il proprio nuovo lavoro in studio come “il nostro album più politico” metto mano alla pistola.

Parlare dei Depeche Mode è camminare su una lastra di ghiaccio. Parlare male dei Depeche Mode è saltare a piedi uniti su una lastra di ghiaccio. Figuratevi quando poi le premesse sono quelle succitate. Non è per prese di posizioni personali, simpatie o antipatie: ma è scientificamente dimostrato che questo genere di risoluzioni arrivi esattamente nei momenti di ispirazione artistica calante. E la regola non viene smentita nemmeno questa volta.
Questo in sostanza è lo spirito col quale mi approccio a scrivere di Spirit, album numero quattordici e che arriva a quattro anni di distanza dal non certo indimenticabile Delta Machine; in cabina di regia James Ford dei Simian Mobile Disco.

Disco politico, si diceva. Peccato che nel declamare i propri proclami il duo Gahan/Gore commetta il peggior peccato possibile: la banalità. Ora, nessuno con un QI più alto della temperatura nella stanza in cui sto scrivendo si dovrebbe legittimamente aspettare trattatelli di politica e diritto internazionale da un disco; si lasci la ricerca della profondità e dell’argomentazione ad altre forme di espressione più consone. Eppure c’è comunque un abisso tra le frasette ridicole e scontate che animano Spirit da album politicizzati di ben altro livello. Si concordi o meno con il messaggio passato, non è questo il punto. Tralascerò per pietà le solite frecciatine al canticchiare di rivoluzione sotto l’ala protettrice di una major.
Gahan deve aver sforzato veramente poco le meningi per parti lirici del calibro di

Where’s the revolution
Come on people
You’re letting me down
Where’s the revolution
Come on people
You’re letting me down

Apperò. Musicalmente invece va riconosciuto che con Where’s the Revolution ci troviamo nel perfetto terreno da singolo dei DM degli anni ’00, roba da dare del filo da torcere a quei capolavori di furbizia radiofonica che sono stati A Pain That I’m Used To o Heaven, per restare in tempi più recenti. Si storce il naso a metà insomma: facendo finta di non capire una parola di inglese il tutto diventa perfino passabile anche se, con orecchio critico, bisogna riconoscere che l’ispirazione con la I maiuscola non è di casa qui. C’è puzza forte di già sentito e sentito meglio.
Gahan, per inciso, canterà sì di cose al limite della risatina pietosa ma lo fa con grande eleganza, magniloquente e sopra le righe nell’interpretazione vocale come in quella recitativa nel video diretto da Anton Corbijn.
Sulla stessa scia e nel complesso facendo tutto un po’ peggio arrivano Going Backwards e Scum che vorrebbero essere micidiali bordate al potere costituito brutto e cattivo ma causano uno sbadiglio dopo l’altro. Per facilitare definitivamente l’abbiocco in mezzo alle due viene inserita, infida come nemmeno il Roipnol, The Worst Crime.

Ma insomma si salva qualcosa? Non casualmente, i brani che, schegge impazzite, evadono dal concept politico – alla prova dei fatti, quasi più un pretesto pubblicitario.  C’è la coppia Eternal – Poisoned Heart; la prima, poco più di un suggestivo interludio, viene poi smentita nei propositi dalla seconda, una ballatona sintetica dall’incedere pesante e rumoroso con echi che richiamano quasi il brillante Black Celebration. Laddove una è dichiarazione di amore eterno, l’altra è amara disillusione, due facce della stessa medaglia, carezza e schiaffo.
So Much Love è così ottantiana e plagio di sé stessi da risultare imbarazzante per i primi venti secondi salvo poi diventare irrinunciabile subito dopo, candidata perfetta a giganteschi sing-along con il pubblico durante il tour in arrivo.
Ambigua a metà tra il personale e il politico No More (This is the Last Time) rispolvera di nuovo un ottimo pop elettronico compiacente; e impossibile da non citare è Cover Me, forse la miglior prestazione dell’ugola cantante, suadente come non mai nel dipingere sogni e realtà immaginate

The air is so cold here
Too cold to see
We have to take cover
Cover me

Way up here with the Northern lights
Beyond these broken bars
I pictured us in another life
Where we’re all super stars

Spirit fa incazzare. Fa incazzare perché, vivaddio, i Depeche Mode non sono – ancora? – diventati quel genere di band di mezza età (U2, siete all’ascolto?) con ancora sufficiente energia nelle vene da esser spettacolari dal vivo ma non abbastanza ispirazione in studio. Fa incazzare perché qui c’era ben più potenziale di quello che viene poi espresso: difficile immaginare che bastasse qualche accorgimento per rendere questo Spirit un rivale di Music for the Masses o Violator. Si poteva fare però molto di meglio e così viene da dire che “è intelligente ma potrebbe applicarsi di più“.
Da una band come i Depeche Mode è lecito e finanche obbligatorio pretendere altro. Ci vediamo al prossimo appello.

Traccia consigliata: Cover Me.