Sono passati solo 5 giorni dall’uscita di Black Messiah, ma l’internet ha già dato dimostrazione di essere sempre e comunque il miglior Paese del nostro pianeta. Abbiamo visto gente emozionarsi all’annuncio del disco, gente provare a canticchiare le liriche di D’Angelo, Chet Faker fin troppo emozionato dal funk di Sugah Daddy e i soliti meme (sia di buono che di cattivo gusto). Tutto questo perché? Perché l’oramai quarantenne Michael Eugene Archer (a.k.a. D’Angelo) è tornato sulla scena con 56 minuti di neo-soul/funk/r’n’b dopo ben 14 anni dall’ultima realease ufficiale (Voodoo), ossia almeno un’era musicale dopo, in cui la musica viene suonata sempre meno.

Tornare dopo anni di silenzio è sempre un terno al lotto: o lo fai semplicemente perché hai le pezze al culo, rilasciando materiale scadente (ma che comunque venderà perché hai un nome), o lo fai perché hai roba nuova da proporre e quindi ci provi, o più difficilmente lo fai perché l’evoluzione della musica è giunta in un momento in cui un certo genere è tornato a livelli altissimi o sta per ri-esplodere (vedi m b v dei My Bloody Valentine nel 2013 con lo shoegaze). Nel caso di D’Angelo non ci troviamo né davanti ad una trovata pubblicitaria, né tantomeno ad uno stravolgimento del suo stile: ci troviamo semplicemente a due anni di distanza dall’uscita di Channel Orange di Frank Ocean che con il suo nu-r’n’b ha definitivamente aperto le porte della musica così definita nera all’uso e consumo dei bianchi, avvicinando una generazione a territori per decenni raramente (o difficilmente) visitati.

Give life back to music” non era solo il titolo del brano di apertura di Random Access Memories dei Daft Punk, ma era un chiaro messaggio che i due robot volevano mandare a tutto il mondo della musica, invitandolo a tornare alle origini per dare una nuova vita alla musica stessa. Accontentàti. Dopo pochi mesi la press release delle RCA all’uscita di Black Messiah ci fa sapere che “[…] All of the recording, processing, effects and mixing was done in the analog domain using tape and mostly vintage equipment […]“. La musica suonata è definitivamente tornata. È tornata con un mostro poli-strumentista come D’Angelo che, à la Prince, vuole mettere mano su ogni singolo strumento di ogni singolo brano. È tornata, oltre ai The Vanguard che fungono da orchestra (per tutto l’album), con Pino Palladino (Il bassista per definizione), James Gadson (Il batterista della Motown) e ?uestlove (The Roots).

Il Messia Nero è un disco notevole, così caldo che arriva a scioglierti con la poesia e i riff flamenghi di Really Love; è un susseguirsi di suoni meravigliosi che profumano di Detroit anni ’60 dove la Motown registrava i capolavori di Marvin GayeStevie Wonder e Diana Ross. Oltre al magnifico mix di swing e rnb di Sugah Daddy (unico pezzo in cui Palladino, Gadson e ?uestolove suonano tutti insieme), il capolavoro del disco è indubbiamente 1000 deaths, pezzo punk-hop che ricorda per stile e testi The Revolution Will Not Be Televised (1970) di Gil Scott Heron, dove “A coward dies 1000 times/A soldier only dies just once” con chiari riferimenti politici (specie alle recenti uccisioni di civili americani di colore, freddati anche se disarmati – e la conseguente protesta chiamata I can’t breathe).

Dalla opener funk Ain’t That Easy (You won’t believe all the things you have to sacrifice/Just to get a piece of mind) alla traccia finale Another Life (pezzo à la Marvin Gaye, che suona quasi come un canto liberatorio dai problemi legali avuti in questi 14 anni), Black Messiah suona senza tempo: è il riassunto di decenni di musica, è la conferma della maestosità di un artista che non conosce età. Se Voodoo era la pietra miliare del neo-soul, questo disco è poco meno, ma comunque dimostra che se fai musica coi controcazzi e la suoni davvero con persone che sanno veramente farlo puoi arrivare dove vuoi, anche alla leggenda.

Tracce consigliate: 1000 Deaths, Really Love, Sugah Daddy