I Cymbals Eat Guitars sono una band difficile da inquadrare, così trasversale che porta in sé una contraddizione ed una risorsa: da un lato un prodotto musicale che è istantaneamente identificabile come indie rock, dall’altro una varietà di influenze, dal punk al pop-punk, dall’emo al lo-fi, dallo shoegaze al noise, difficili da collegare ad un certo filone, nonostante la sovrastruttura dell’indie rock possa servire da collante per una certa scena americana, soprattutto se vieni da un posto come New York. Sfuggire ad un’etichetta e ad una scena probabilmente non aiuta con le vendite, però diventa con gli anni il punto di forza della band di Joseph D’Agostino, continuando a riconfermarsi anche con il quarto lavoro, Pretty Years.
I Cymbals Eat Guitars nascono sul finire degli anni 2000 con Why There Are Mountains, ma è soprattutto con Lenses Alien e LOSE che si affermano, con la loro capacità indiscutibile di produrre un indie rock rabbioso e graffiante con mezzi e attraverso percorsi non prevedibili – e proprio per questo non facilmente etichettabili; LOSE, di cui vi avevamo parlato anche qui, è stato per chi scrive uno degli album più importanti del 2014, una commistione perfettamente razionale di influenze che scivolavano e si incastravano perfettamente tra un brano e l’altro, nonché forse l’album più importante per la band poiché scritto per superare un lutto.

Pretty Years prende invece toni più leggeri e spontanei, soprattutto nella prima parte dell’album, in cui la produzione più marcatamente tendente al pop di John Congleton si sente particolarmente nell’hook di Have a Heart e nel sassofono di Wish (interessante, qui, fare un parallelismo con uno degli ultimi lavori di Congleton, Boy King dei Wild Beasts). Eppure il talento dei Cymbals Eat Guitars sta proprio nel non diventare mai pop, mai qualcosa che non siano i Cymbals Eat Guitars: perché laddove i synth tendono a propendere verso una deriva di un certo tipo, c’è di contrasto la voce ruvida, violenta ed imperfetta di D’Agostino a riassestare i toni, accompagnata da forti distorsioni che ricreano come la sensazione di ascoltare una band dal vivo però dalla stanza accanto. È quello che succede con 4th of July, Philadelphia (SANDY), in cui ritroviamo anche il talento narrativo di D’Agostino nel creare immagini nitide (in questo caso, un incidente che è quasi costato la vita ad un amico); “How many universes am I alive and dead in?”, si chiede 4th of July, creando in più punti un forte rapporto di continuità lirica con i temi già trattati negli album precedenti. Il brano fa parte della seconda metà dell’album, in cui troviamo il meglio di Pretty Years. Tra Dancing Days e Shine ci sono sei grandissimi pezzi di una band al pieno delle proprie potenzialità stilistiche: il punk rock di Beam, l’intensità laconica di Dancing Days in cui D’Agostino viene a patti con la sua maturità (“Goodbye to my dancing days / goodbye to the friends who fell away / goodbye to my pretty years”), il crescendo shoegaze di Shrine, ma soprattutto il minimalismo melanconico e leggermente dissonante di Mallwalking, in cui la batteria assesta i colpi e le immagini create dal racconto fanno il resto, posizionando l’ascoltatore in rapporto sinestetico con il tutto, in un grosso centro commerciale, vuoto e buio: “Mama takes me mallwalking / she knows that I’m an empty kid / she buys me stuff to fill me up / but I think I am bottomless”. Mica cosa facile.

Nella sua interezza, Pretty Years non è il miglior disco dei Cymbals Eat Guitars. Il che non vuol dire molto, visto il curriculum stellare della band. Pretty Years rimane comunque un gran bel disco, con dei picchi altissimi, di una delle band migliori che il panorama indie rock attuale possa offrire. Non c’è molto altro da dirvi oltre che consigliarvi di scoprirli se non l’avete ancora fatto.

Tracce consigliate: Mallwalking, Dancing Days