Cornice di terrazza normale con cielo azzurro; estetica bizzarra di ciuffo scompigliato, scalato male, nell’intento di mangiarsi le unghie controsole con gli occhi piccoli, strizzati; attitudine di plastica che sembrerebbe inseguire Calcutta, profilo di “giovane vecchio” alla Davide Panizza: è Giovanni Imparato, in arte Colombre, e Pulviscolo è il suo disco d’esordio da solista lanciato dalla Bravo Dischi, in collaborazione con GDG PRESS – Ufficio stampa e Panico Concerti.

Nel panorama cantautorale fattosi spazio in questo inizio 2017 (estendibile al contesto 2016), gli esperimenti più riusciti sembrerebbero quelli che, più schiettamente, si sono appellati ad un ritorno al beat anni ’70-’80, alla psichedelìa, come ad una necessità per ritrovare nella propria cifra oscenamente pop una musicalità contaminata da note e motivi gravi, di gusto postpunk/new wave. In questo senso Giovanni Imparato, già anima del progetto Chewingum, esibisce la disinvoltura di chi ha dovuto solo raccogliere il coraggio per strozzare il reggae/pop/funk già da anni portato in giro con altre etichette, come Garrincha e La Tempesta, per mettersi alla prova in testi più rarefatti, prodotti in salute di un rigido confronto psicologico con sé stesso; nonché stilistico, con un’autorevole e variegata tradizione autorale.

Pulviscolo è anche il titolo della traccia d’apertura, primo estratto rilasciato dell’album. L’organetto infantile restituisce una serenità alla Kingston Town degli UB40; “Ho buttato via un sacco di tempo” è il verso che inaugura il motivo e l’esercizio principali che innerveranno tutto l’album: lo sgretolamento del tempo e dell’esperienza in granelli di polvere, cui solo una minuziosa premura dei particolari più effimeri, descrittiva, può restituire un’idea d’insieme, al servizio di un immaginario strumentalmente ingenuo, semplice; correlativo necessario per non soccombere al proprio mostro ormai maturo ed in avanzamento. Il rancore è escluso e cede il posto ad una fiducia impossibile nell’altro, in una comprensione misera che separa, gesto d’umiltà per non chiudersi nel proprio mondo. “Niente rende più umili / di un addio”. L’amore veste i panni del rimorso, il motivo della sua ricerca trova spazio nella tenerezza prodotta dalla successione di minuti e continui fallimenti. La gara di velocità che la realtà impone è destinata a relegarlo sconfitto ed incredulo, solo, immobile e indolente a tagliarsi i capelli allo specchio – “e intanto /(le prospettive) le condizioni intorno / cambiano / e ballano / mentre tu sei Fuoritempo”. Fuori tempo, come la chitarra acida che chiudendo la seconda traccia distorcerà tutta la quarta, Tso, al gusto vago del Lennon di I am the Walrus, con gli psicofarmaci al posto dell’LSD a marcare lo smarrimento nel proprio ingannevole labirinto. Dimmi tu ammicca agli spazi interstellari e al ritmo di Protobodisathva de iCani, condita dall’autoironia dei se non avessi te di Nek, dell’alto mare della Bertè, di una chitarrina funky alla Figli delle Stelle. E poi “Crepa / produci o crepa // Loro / se ne fregano sempre / non gli importa niente / tantomeno di te // Dai su alzati / e vestiti a festa / anche nella tempesta / o con la faccia nel muro // Fottetevi / voi e l’universo / con la terra in bocca / non ho nulla da perdere / mi fate schifo e non voglio vedere nessuno da qui”; Sveglia, una delle canzoni più riuscite, che con postadolescenza, odio come forma d’amore morboso e batteria contro tempo sembrerebbe richiamare i primi torbidi Baustelle.

Il 24 febbraio generatore di hype esponenziale era stata l’uscita del secondo singolo Blatte, collaborazione con e produzione di Jacopo Incani (IOSONOUNCANE), destinato ad affermarsi come il capolavoro dell’album: le seconde voci e la tastiera creano un’atmosfera soul, alcuni passaggi di nuda voce su nuda batteria giocano bene a favore di uno spazio chiuso, minato da orribili insetti nascosti che attendono il buio, in cui l’indifferenza è la risposta alla mancata scelta di esposizione alla luce, per ritrovarsi nello spazio di un mattino. La narrazione si chiude poi con Bugiardo e Deserto, nelle quali resosi conto della vanità dei propri sforzi, l’io si convince di sfiorare il ridicolo, a ossa rotte, si recepisce senza dignità e la riconosce dunque a tutto ciò che è “altro”, assieme alle ragioni, perché non sa che farne, se non essere tenace di questa assenza. “Mi sono sentito / sporco e schivo / nessuna gloria e vittoria / io attendo che il mattino ritorni // Quando faccio sul serio / mi sento stupido // Assesta il colpo / perché tu / vali molto più di me / che affondo / e non so pentirmene.” “I tuoi occhi / di geroglifico / riflettono la luce / di una cava di sale / non sai bene che fartene / di te / nasconderti o sparire / in solitudine / se hai sbagliato / mille volte / fino a farti schifo / arriva a un milione.” Per rifugiarsi, infine, in un altrove sconosciuto.

Nel finale del Deserto dei Tartari di Buzzati, Drogo, mangiato dal male, esiliato tra ignota gente, si decide a volgere dignitosamente incontro al trapasso; perché peggio della morte, c’è l’averne paura. Alla Fortezza Bastiani di Buzzati e alla paura della fugacità del tempo è dedicato un brano di Dieci Stratagemmi di Battiato, che per questa condivisione di temi e di tensione di ricerca, assieme agli altri due ho scelto di accostare a Pulviscolo; non per una somiglianza letterale. Il Colombre stesso è il mostro dei mari di un racconto di Buzzati, che per tutta la vita insegue incutendo terrore il predestinato protagonista marinaio, configurando la sua esistenza come, appunto, una costante e terribile fuga dal mostro; per culminare in un finale incontro in cui, datagli solo in ultimo possibilità di parola, questo rivela di aver sempre esclusivamente desiderato donargli la perla del mare, che dona gioia e ricchezze eterne; e va via. Dall’incontro con le paure più profonde può scaturire forse il più intenso dei fasci di luce.

Tracce consigliate: Blatte, Sveglia