braids-deep-in-the-irisAnno: 2015
Etichetta: Arbutus

Simile a:
Zola Jesus – Taiga
Iamamiwhoami – Blue
Fever Ray – Fever Ray

Più di venti lune si sono susseguite dacché i Braids pubblicarono il loro ultimo album: Flourish//Perish (2013). Le dieci tracce di questa raccolta apparivano in vesti emblematiche, personalità plurime, ammantate da una copertina quasi metafisica, nel cui centro regnava un’immensa sfera nera e densa, eppure contraddistinta da un’infinita leggerezza: molto dell’effetto ottenuto dalla suggestione visuale si poteva poi ritrovare nell’album, un manifesto con il quale la band di Calgary ha sin da subito dimostrato la propria abilità nello serpeggiare sensualmente tra generi e suggestioni, in equilibrio tra basi indie, ritmi trip-hop, sperimentazione e rapide pennellate psichedeliche, intensità e leggerezza allo stesso tempo.
Alta era l’asticella posta in essere dal sorprendete livello di Flourish//Perish, ma ancora una volta i Braids hanno confermato la loro ecletticità in Deep in the Iris, estraendo dalla propria manica un “asso”, una vena profondamente pop, mescolata ad un numero pressoché illimitato di suggestioni.

Un caldo fruscio ci accoglie nell’intimistica dimensione dell’album: Letting Go, la prima traccia, si accende lentamente come una vecchia casa illuminata da tante candele: ad una semplice apertura al piano, subentrano educatamente gli altri strumenti, in ordine drum machine e chitarra, che con pochi accordi aprono la strada alla splendida voce di Raphaelle Standell-Preston ed ai vocalizzi del coro, le note create spirano delicate in una dimensione nella quale le voci femminili intrecciate, ottengono seducenti suggestioni dal sapore marino e mitologico.
L’album sfuma nella seconda traccia Taste che sfortunatamente si sofferma troppo in cliché come “We accept the love we think we deserve” e “We can’t explain why / We hurt the ones we love” che nulla aggiungono a livello d’interesse alla traccia ed anzi soffocano le parti del testo che realmente riescono nel tentativo del brano di trasmettere la drammaticità desiderata, focalizzata su quelle relazioni che feriscono a livello mentale e fisico, ma dalle quali è comunque difficile allontanarsi: “Take me by the throat / Will you push me up against this wall / And spit all your hurt on me / So I can feel my reach”, il tutto sembra poi slegato dalle scelte che contraddistinguono l’arrangiamento: volto alla semplicità è testimone della capacità della band di creare una traccia pop orecchiabilissima, ma non se ne coglie il senso dato che toglie credibilità allo sforzo fatto per dare al testo quella parvenza d’impegno contenutistico.
La volontà d’affrontare argomenti impegnati accompagnandoli a sonorità pop/radio-friendly  ritorna per la traccia Mini Skirt che invece si cimenta con argomenti ancora più intensi come misoginia e molestie per le quali una minigonna diventa emblema, causa, scusante per: “It’s like I’m wearing red / And if I am / You feel you’ve the right to touch me / Cause I asked for it“. Miniskirt riesce in ciò nel quale Taste falliva: dietro gli accordi al piano sorge lento il synth che culmina in un climax d’impatto, dopo del quale il brano subisce una variazione tale che la fa sembrare un’altra traccia, e sul synth questa volta primeggiano delle percussioni quasi drum-n-base, il tutto è cucito dalle abilità canore di Raphaelle, dimostrate da prodezze vocali che ricordano quelle di Kate Bush.
C’è qualcosa dei Cocteau Twins o delle più contemporanea IamamIwhoamI che risuona in Happy When, così eterea e delicata con quelle sonorità quasi drone ambient. Interessante Sore Eyes: masturbazione e pornografia, in una lotta interiore che Raphael compie tra il desiderio di darsi piacere e il disgusto provato dal guardare materiale erotico on-line, il tutto è accompagnato da bassi e synth che ci trascinano in un’ambientazione elettronica a luci rosse, ma dalla quale la traccia rapidamente si libera grazie alla voce riverberata della cantante, inserendosi in una dimensione onirica.

Quest album sortisce gli effetti di un libro con una bella copertina: attrae di primo acchito, ma quando poi ci si addentra nella lettura i contenuti si dimostrano meno impegnati e trattati in modo sbrigativo più di quanto non si credesse,  facendoci riflettere su quanto effettivamente esce della personalità degli artisti che con vi si sono dedicati. Così quell’asso nella manica (la capacità di dedicarsi ad una sfera più pop/radio-friendly) diventa una lama a doppio-taglio facendo sorgere domande su quanto sia andato perduto di ciò che faceva apprezzare i Braids ed il loro eclettismo, ciò non toglie che a leggerci questo libro immaginario è una voce incredibilmente bella, forse è questo il vero coniglio nel cappello della band canadese: Raphaelle Standell-Preston è ciò che è certo è che in questo disco il suo talento è più forte di qualsiasi altro scivolone.

Traccia consigliata: Happy When