Un percorso che inizia quasi 10 anni fa, in una cabina di caccia abbandonata, una chitarra acustica e una voce. Le canzoni, le melodie, i testi di For Emma, Forever Ago e una forza comunicativa inaspettata poiché racchiusa in una formula così semplice. Un singolo (Skinny Love) che fa esplodere la popolarità. Il passo successivo non poteva che essere Bon Iver, il selftitled: il mantenimento di un songwriting unico e cristallino riarrangiato però in maniera eccelsa, con una band maestosa che ha fatto sfumare il rapporto di univocità tra Justin Vernon persona e Bon Iver progetto, divenuto, a tutti gli effetti, un collettivo che ha dominato i palchi di tutto il mondo. Poi il silenzio, lo stop, The Shouting Matches prima e Volcano Choir poi, le collaborazioni con Kanye West, Colin Stetson, James Blake, Francis and the Lights e Frank Ocean e, finalmente, dopo 5 anni, un ritorno da cui era lecito aspettarsi qualsiasi cosa.

Per quanto concerne l’aspetto visivo, Vernon ha sicuramente compiuto un passo un po’ straniante, di sicuro inaspettato. A vedere la grafica della copertina, i video dei singoli e, ancor di più, la tracklist di questo 22, A Million, si potrebbe avere la sensazione di essere davanti ad un lavoro fuori tempo massimo, asettico, figlio di quell’aesthetic digitale ormai sdoganata e per certi versi un po’ forzata. Nulla di tutto ciò, o almeno, non completamente: con l’ascolto, infatti, ogni tassello torna al suo posto e tutto assume un senso.

22 (OVER S∞∞N) ha da subito messo in chiaro una cosa, e 10 d E A T h b R E a s T l’ha confermata: in 22, A Million non troveremo mai la canonica forma-canzone a cui eravamo abituati, mai un ritornello. La prima traccia si costruisce su un loop vocale ripetitivo, su cui Justin canta tra riverberi e armonizzazioni mentre intorno voci pitchate cesellano un lavoro di chitarra e fiati che rimanda indietro di qualche anno, con quel “S A X O F Ó N” che arriva dritto nel profondo proprio come la breve coda di archi. La seconda (con un titolo che sembra giocare sull’eco di Beth/Rest) è invece un delirio di elettronica aritmica, di sporcizia, di vocoder, di rumori di fondo, di volumi ed equalizzazioni estreme. All’apparente nonsense musicale, però, si erge il comparto lirico di cui Vernon è maestro. Le parole formano immagini fortissime; siano esse accostamenti simbolici e religiosi da interpretare oppure una quotidiana e umanissima realtà rivelata senza mezzi termini, il risultato è sempre un pugno nello stomaco: “There I find you marked in constellation (two, two)/There isn’t ceiling in our garden/And then I draw an ear on you/So I can speak into the silence”, e poi “Decoding every daemon/Taken in the tall grass of the mountain cable/And I cannot seem to find I’m able”; o ancora il più semplice “fuckified”, intriso di una disarmante sincerità, una richiesta d’aiuto che, sorda, risuona nel vuoto.
33 GOD (terzo singolo della durata di 3 minuti e 33, pubblicato 33 giorni prima dell’uscita del disco), è di una delicatezza rara. Su di un piano minimale e dei vocal mischiati a dei rumori materiali (nel video definiti “bird shit”, quasi a disprezzarne la natura terrena) Vernon affronta il tema della perdita della fede, apparentemente non solo in Dio ma, traslando, anche nell’amore (“These will just be places to me now”). Ancora una volta il binomio sovrasensibile/reale crea una trama strettissima, indistricabile, resa magnificamente dallo squarcio di percussioni a metà pezzo e, liricamente, da frasi semplici, diametralmente opposte al tema del divino evidentemente trattato nel pezzo: “We had what we wanted: your eyes”, “I’d be happy as hell, if you stayed for tea”, “Why are you so far from saving me?”. Contraltare di 33 GOD è chiaramente 666 ʇ. Chitarre sporche, quasi prive di postproduzione, e un arpeggiatore che sembra lì per caso fanno da tappeto ad un’altra richiesta d’aiuto, sino alla spiegazione palese dei rapporti causa-effetto di una delle situazioni umane più comuni e dolorose: “(One dark circle)/I don’t know who to write/I don’t know who can call up all the questions/To clean out her name/I fell in love”. Non c’è una personificazione demoniaca ben precisa, quei “Sixes hang in the door” potrebbero nuovamente essere sì Satana come tentatore, come il peccato, ma anche una donna ormai lontana, o ancora un momento di difficoltà e solitudine dello stesso Justin. E, mentre ancora una volta le percussioni destano l’atmosfera come uno scossone che invita a reagire, nel climax orchestrale si fa largo una preghiera: “Help me reach the help/[…]/Please, please, please/I can admit to conceal/No, that’s not how that’s supposed to feel, oh, no/It’s not for broader appeal/Fuck the fashion of it, dear”.
21 M
♢♢N WATER ____45____ fanno invece del minimalismo testuale la loro forza: la prima analizza l’uomo e il suo essere costretto per natura nella contingenza, in un rapporto bilaterale tra incatenamento al presente e slancio al futuro: “The math ahead/The math behind it […]The path ahead/The path behind it”; la seconda ripete, riportando ancora in auge il tema religioso, “I’ve been, caught in fire/Without knowing what the truth is” come un mantra, in una soluzione musicale limitatissima.
Ancor più minimale è 715 – CRΣΣKS, con il solo vocoder. Semplice nella musica, sì, ma difficilissima nell’interpretazione. La Σ (sigma) è la diciottesima lettera dell’alfabeto greco che rappresenta anche un legame chimico – probabilmente qui il legame con la fede e con l’amore, ancora – che, in questo caso, si è irrimediabilmente rotto (“And love at second glance/It is not something that we need/Honey, understand that I have been left here in the reeds/And all I’m trying to do is get my feet up from the crease”) portando alla disperazione, condensata nello slancio impulsivo e impetuoso sul finale, in quel “Goddamn, turn around now/You’re my A Team”, quasi fosse una rivisitazione del mito di Orfeo ed Euridice, quasi fosse l’unica reazione umana possibile di fronte alle spalle di una persona amata che si allontana.
C’è spazio per due canzoni, sì, come ai vecchi tempi. La prima è 29 #Strafford APTS che ci culla tra chitarre acustiche e cori e, come sempre, liriche tutt’altro che banali: “Hallucinating Claire/Know the snow, shoe light of the autumns/I threw the meaning out the door/There ain’t no meaning anymore”; la seconda è la conclusiva 00000 Million, una ballata lofi al piano che accompagna sempre testi in bilico perenne tra il simbolico e il realista: “So I can depose this, partial to the bleeding vines/Suppose you can’t hold shit. how high I’ve been/What a river don’t know is: to climb out and heed a line/To slow among roses, or stay behind”.
E poi manca solo 8 (circle), la chiusura del cerchio, appunto, l’otto come il simbolo dell’infinito ribaltato, appunto. Una composizione melodica che fa male nel suo incedere lento e nella sua perenne ricerca di un climax, gioioso o doloroso che sia, che si manifesta sì ma non davanti ai nostri occhi; ci rimangono solo le spoglie di un temporale in lontananza, sconosciuto. Il testo, poi: “Philosophise your figure/What I have in heaven, hell”, “Too much for me to pick up, no/Not sure what forgiveness is/We gather at the squall of it all/I can leave behind a hover”; e il finale:

Baby, I’ve locked up my failures
(You’re on, you’re on)
Here and I’ve been the last to see
See you laugh it off your fingers
Was it all I could find?

22, A Million è un lavoro proiettato nel futuro, proiettato oltre il livello antropico, ma imbrattato di realtà presente, di ora, di adesso, di noi. Dai testi e dalle melodie, dalla fattura e dalla destrutturazione dei pezzi, traspaiono un’umanità talmente manifesta, cruda, una libertà d’intenti così schietta e irreprensibile, che la reazione più naturale all’ascolto è lo sconcerto, come quando realizzi che la verità l’hai sempre avuta sotto il naso ma eri troppo impegnato a fare altro per accorgertene. 22, A Million è Vernon in persona, è proprio il disco che aveva in mente, come lui stesso ha confermato:

Being 22 is me. And then the last song being a million, which is this great elusive thing: like, what’s a million? The album deals a lot with duality in general and how that works into the math.

È come se Justin avesse iniziato a parlare con la sua coscienza e si fosse ritrovato, lungo il percorso compositivo, a fare i conti con se stesso, di fronte allo specchio, con la propria figura via via più nitida ma inserita in un contesto inversamente tangibile, sempre più lontano e dilatato: una dualità irrinunciabile. Un lavoro personale, intimo, ma allo stesso tempo così universale che l’ascoltatore ritrova la sua vita proiettata in ogni verso.
Vernon, prima, si chiudeva in una cabina di caccia, rimaneva nel suo circolo vizioso di tristezza e cercava rifugio nella scrittura. Ora, però, c’è la rottura, la svolta, il grido disperato nel deserto che squarcia il Velo di Maya e fa levare gli occhi al cielo. Tutto si risolve nell’epifania: la ricerca culmina proprio nell’eterno ritorno della fragilità che ci accomuna, in ciò che di più terreno e delicato eppure infinitamente tangibile ci è donato, nel liberare all’unisono un urlo troppo spesso rimasto soffocato in gola (“And I’m gonna shout all my trouble over”), nell’accettare che sì, siamo e saremo sempre tutti fuckified, ma possiamo ancora aggrapparci a quel poco di speranza rimasta perché, in fondo, forse, “It might be over soon”.

Dipanata la coltre di una artificiosità solo apparente, con gli ascolti 22, A Million si rivela per quello che in realtà è: un lavoro denso, variopinto, curatissimo, imprevedibile, viscerale, infinitamente umano.

Tracce consigliate: 8 (circle), 33 GOD, 666 ʇ, 10 d E A T h b R E a s T