“L’arte non è ciò che si vede, ma ciò che consenti agli altri di vedere”.
Una donna col petto divaricato. Le braccia aperte, come ad invitarci ad entrare. Questo il preambolo, di ciò che ci aspetta se decidiamo di avventurarci nel nuovo lavoro targato Björk . Anche il titolo stesso, Vulnicura, può essere considerato un indizio: infatti, dal latino, Vulnus, che significa ferita, e cura, appunto. L’incidente scatenante è la fine del proprio rapporto amoroso con Matthew Barney, compagno di una vita, col quale ha anche una figlia. Ora magari vi chiederete: ma come, ci propina un album da adolescente depressa? Niente affatto, tranquilli.
Al contrario questo è un lavoro incredibilmente maturo e intenso, talmente profondo che non è facile avvicinarcisi, ma una volta fatto è difficile non venirne toccati emotivamente . Il processo creativo, viene utilizzato per affrontare il dolore, ma anche per accettarlo, comprenderlo e, infine, superarlo (da qui il rimando al titolo).
Un abbandono totale dell’astrattismo (che l’ha contraddistinta ultimamente) insomma, accantonato per accoglierci dentro la sua, più che concreta, sofferenza. Si ha un segno di rottura col passato anche a livello musicale: c’è una separazione netta dallo sperimentalismo sfrentato a cui ormai avevamo fatto l’abitudine ( a volte geniale, a volte fine a se stesso, Biophilia su tutti), a vantaggio di un ritorno alla canzone più classica. Ma non aspettatevi conformità o canonicità in Vulnicura: infatti la forma dei singoli pezzi, è tutt’altro che vicina al formato radio friendly, ma anzi si presenta imprevedibile, con tracce che toccano anche i 10 minuti e strutture che assomigliano più a musica orchestrale e barcocca, con buona pace degli standard commerciali.

E’ probabilmente l’opera più intima della cantante, che si è avvalsa di due nomi di lusso per aiutarla: il giovane produttore venezuelano Arca (che è sempre più sulla rampa di lancio) e l’amico Haxan Cloak, sopratutto al mixaggio. Il disco fondamentalmente è diviso in 3 parti.
Il primo gruppo è formato da Stonemilker, Lion Song e History of Touches, che come scrive la stessa cantante sul booklet, sono state scritte mesi prima della separazione. La prima è una delle uniche due tracce scritte e prodotte interamente dalla sola Björk,  nella seconda invece si sente la mano di Arca e già nel testo si avverte la crescente preoccupazione che è ancor più evidente nella traccia seguente “I wake you up, in the night feeling, this is our last time togheter”  ed entra già in un mood malinconico “Every single fuck, We had togheter,  Is in a wondrous time lapse”. Se in questa prima parte, ancora, l’architettura della canzone era piuttosto riconoscibile, passando alla seconda viene, invece, completamente dissestata.
E questa nuova fase del disco inizia con quello che è il brano più sentito e carico di tensione: Black Lake. 10 oscuri minuti, caratterizzati da archi sontuosi e strazianti, quasi imbizzarriti, e una voce tormentata che recita una sorta di poesia colma di risentimento. Una specie di diss contro l’ex-compagno, su cui la stessa cantante ha recentemente detto “I was really embarassed about this song, I can still hardly listen to it”. Di seguito troviamo gli 8 minuti di Family, dove la rabbia continua ma i toni sono smorzati e si fa riferimento alla figlia, e Not Get, la traccia dove sale più in cattedra  Arca e dove il risentimento fa spazio alla tristezza “After our love ended, Your arms don’t carry me, without love I feel abyss, understand your fear of death”.
Qui finisce questa ipotetica seconda parte, che, come sempre specificato nel booklet, è stata scritta nei mesi seguenti la rottura.
Si ha quindi una terza parte con canzoni più riflessive, accomunate da una visione d’insieme sulla vicenda, molto più serena e consapevole. Atom Dance in cui l’slandese duetta con Antony Hegarty, Mouth Mantra la traccia più contaminata dall’elettronica e Quicksand, l’altra canzone scritta e prodotta solo con le proprie mani, in cui parla della madre e che conclude il nostro cammino.
Imprescindibili per assimilare il disco sono i testi, mai così importanti  e sinceri, in un lavoro di Björk. Una lady Guðmundsdóttirche (complicata pure nel cognome ovviamente, avevate dubbi?) che, come ci fa sapere anche Arca stesso, non è mai stata così in forma, anche per quanto concerne l’arrangiamento degli archi, importantissimi e che infatti risultano sempre impeccabili.
Non è comunque un ascolto facile, anzi, è davvero complesso e pesante, ma chi ne ha la pazienza e la voglia,probabilmente riuscirà  ad entrare in empatia con la cantante, per sentirsi lei in quei momenti e perché no, forse anche a visualizzarli.
Insomma Björk torna sulla terra e, come da copertina, spalanca il suo torace, per invitarci a vedere il casino che le è successo dentro: non mancate all’invito.

Tracce consigliate: Black Lake, Stonemilker, History of Touches.