Prendi una domenica pomeriggio di Ottobre, mettici che ora c’è l’ora solare o l’ora legale (non lo so le ho sempre confuse, tanto che importa?), la malinconia, il buio presto, un paio di castagne e del vin santo. Cosa manca? La colonna sonora. Ma fortunatamente ci ha pensato Ben Howard con la sua ultima autunnalissima uscita. Ebbene sì, certe volte alcuni particolari come il periodo di release sono troppo trascurati, ma in questo caso l’accoppiata malinconica di I Forget Where We Were va talmente di pari passo con il freddo appena giunto che rende questo LP veramente azzeccato. Il caro Ben è un ragazzotto inglese che qualche anno fa ebbe un discreto successo, andando anche ad accaparrarsi due premi importanti ai Brit Awards, ma che è riuscito a non montarsi la testa; nelle sue uscite pubbliche non è mai sopra le righe, timidamente imbraccia la sua chitarra e come se fosse nell’intimità della sua casa (mi piace immaginarlo in un cottage delle campagne inglesi), un po’ schivamente regala qualche minuto di una musica che al giorno d’oggi descriveremmo come sempliciotta, ma al tempo stesso piacevole, in tutte le accezioni del termine.

I Forget Where We Were è lungo quanto basta; dieci tracce, il tempo di una sigaretta per ognuna, né troppo né troppo poco. Rispetto alle sue uscite precedenti Ben ha raffinato il suo stile; la sua voce non è più la coprotagonista di un duo che la vedeva dividere la scena spesso e volentieri con arpeggi puri e crudi, tutt’altro: in questo sophomore ci sono archi, ci sono effetti nuovi sulla pedaliera (che resta volutamente non troppo fornita) che rendono questo album sicuramente più maturo e curato, ma non meno autentico. Small Thing apre le danze con un riff di chitarra accompagnato da un delay piuttosto evidente, riff destinato a restare il leitmotiv per quasi tutta la durata del pezzo, tranne quando Mr. Howard si chiede se “all these small things they gather ‘round me gather ‘round me; is it all so very bad?”  . Rivers In Your Mouth  e  I Forget Where We Were sono di tutto un altro tenore, toni meno malinconici, atmosfere meno cupe, verrebbe quasi da dire che qualcuno abbia aperto le finestre nel suo cottage; nonostante questo i testi restano comunque piuttosto introspettivi, con domande senza una risposta e un grosso senso di smarrimento. In Dreams sembra chiedere in prestito al miglior Jose Gonzalez un virtuoso riff di chitarra, mentre ci porta velocemente a She Treats Me Well che invece pare attingere ad un altro big del binomio chitarra acustica + voce calda, vale a dire Ben Harper. Una struggente Evergreen si incarica dunque di portarci verso l’uscita, tra temi sempre allegri quali catacombe e maledizioni, precedendo End Of The Affair i cui 3 minuti finali (degli 8 circa totali) risultano essere un esperimento sonoro un po’ fuori luogo per le caratteristiche di Ben e compari. Ci dà infine il saluto finale All Is Now Harmed in cui ben risaltano delle percussioni non convenzionali, quasi afro.

Finita la giornata è l’ora di spengere il camino, di rimettere a posto le bucce delle castagne e di riporre questo album nella sua custodia, pronto per essere ascoltato nuovamente al momento giusto, col mood giusto, nel periodo giusto. Ben Howard è sicuramente un promettente cantastorie, probabilmente monostagionale, ma magari un giorno anche lui riuscirà ad apprezzare la primavera e a cantarcela bene quanto è riuscito a racchiudere l’autunno in questo lavoro.

Traccia consigliata: Evergreen.