595ed64bSecondo molti i ’90 rappresentano una nuova età dell’oro, per altri un semplice appiglio stilistico. Come rispondono i Belle & Sebastian, che hanno fatto sognare generazioni di nostalgici e generare nostalgia a nuovi sognatori in piena carestia post scioglimento Girls pronti a comprare la cassetta di Girls in Peacetime Want to Dance e inserirla nel walkman Sony strapagato su ebay? Con un gran dito medio.

L’attesissimo nono album del combo scozzese riesce nell’impresa di non suonare come un ritorno, rimanendo coerente all’identità (che qualcuno chiamerebbe valori) di una band che se potesse pagherebbe per suonare ai propri concerti. Avversi ad ogni tipo di attenzione mediatica i Belle & Sebastian ci vogliono dire “Ehi, noi non siamo mai spariti”.

Con loro non è sparita quella sindrome di peterpanismo che sembra tormentarli a mo’ di Electronic Renaissance, da irrefrenabile episodio presente in piccole dosi a leitmotiv di un album sopra le righe, che nel caso del singolo The Party Line fa sembrare vecchiacci anche i Two Door Cinema Club. Il pezzo funziona se si mettono da parte le melodie felicemente smithsiane degli scozzesi in favore di ascolti molto più recenti come gli ultimi Arcade Fire di Perfect Couple, le cui ritmiche voodoo si sposano perfettamente con una chitarra rocksteady in pieno stile Django Django.

È bello immaginare i B&S trascorrere del tempo ad ascoltare nuova musica, restare lì sul pezzo, con la consapevolezza di poter stravolgere una formula già vincente in partenza, lavorando come ensamble raffinato dall’indole nomade (The Everlasting Muse) per esaltare quel piglio soul jazz fermo ai tempi di Fold Your Hands Child, You Walk Like a Peasant.

Questa diversità, dovuta ad un lavoro di mixaggio notevole, perde la sua originalità quando i Nostri forzano la mano con episodi a tratti inaccostabili ad una band che seria non lo è mai stata, e che viste le premesse continuerà a stupirci senza mai tornare all’antica. Ma presentarsi con una valanga di tastiere e sintetizzatori fino a stravolgere il range di aspettative e rischiare di rovinare una carriera con un laptop, come nel caso di Enter Sylvia Plath, no questo non ce l’aspettavamo. Allo stesso modo il songwriting autobiografico di Murdoch sorprende per una sottile e polemica ironia verso fatti politici (Allie, The Cat With The Cream), impedendo ad alcuni segmenti del lavoro di spiccare il volo.

Insomma non si può dire che Girls in The Peacetime non faccia rumore, essendo l’album più trasparente e strutturalista della banda scozzese, che all’autoconsacrazione preferisce autenticarsi con un’innata e fanciullesca schizofrenia.

Tracce consigliate: The Power of Three.