Disclaimer: in questa recensione non verranno usate le seguenti espressioni: retromania, citazionismo, pessimismo, nichilismo, svolta pop.

In un’intervista fatta sul finire degli anni 2000, i Baustelle si auto-definirono “persone che sognano di fare un disco con le canzoni che vorrebbero ascoltare in giro ma che non riescono a sentire”.  Era un periodo, quello, in cui Appino mandava tutti affanculo, il sacerdote Manuel Agnelli assolveva i mediocri di tutto il mondo e l’affettatissimo Cristiano Godano cantava di Muse e Schiele. Poi c’erano i Baustelle, che la critica sociale la facevano parlando di mocassini gialli e sentimenti chiaroscuri, non assolvevano nemmeno gli adolescenti come Charlie e, anche se magari ti costringevano a googlare “Antropophagus”, non sfoggiavano solo presunzione ma anche tanta, tantissima ironia in canzoni a prima vista artificiose che citavano Alain Delon e che ad alcuni facevano storcere il naso perché chiamavano la pubblicità “réclame”.

In giro, insomma, come loro non c’era niente, e non è che nel 2018 le cose siano cambiate poi tanto. Oggi che è il tempo dell’iper-realismo dell’Itpop, dei piatti non lavati con lo Svelto e degli uè deficiente, dei “Lo sai sono scoppiata, zio” e delle polaroid, i Baustelle sono – musicalmente e testualmente – fuori tempo esattamente come lo erano dieci anni fa, anche se Bianconi dice che oggi “l’ironia ha rotto i coglioni perché la praticano in troppi, e spesso pure male” e alla critica sociale preferisce l’amore. Con i dodici nuovi pezzi facili (ma davvero davvero qualcuno ci ha creduto?) del secondo volume di L’Amore e la Violenza, i Baustelle mettono un attimo in stand-by l’analisi del presente (piccola eccezione è Tazebao, che con i riferimenti a Casapound e ai fascistelli fa da lato b a Eurofestival) e si interrogano sull’amore, il più banale tra gli argomenti banali, e proprio per questo però il più difficile da ri-funzionalizzare e caricare di nuovi significati.

L’altro giorno ho riascoltato di fila l’intero album e mi sono detto: però, che disco amaro” – ha detto Bianconi qualche giorno fa alla presentazione torinese dell’album. Scordatevi quindi l’amore adolescenziale di Gomma e quello idilliaco di EN, l’amore stilnovistico che non muore mai de Gli Spietati e quello paterno di Ragazzina. L’Amore e la Violenza Vol.2 è un ritratto dell’amore tanto accurato quanto impietoso: c’è il rancore e la gelosia di chi vede l’altro ricominciare (A proposito di lei), il distacco liberatorio che forse è solo un errore madornale (Perdere Giovanna), gli strascichi di una rottura di cui non si è ancora assorbito il colpo (Caraibi) e strumentali vortici di grida sataniche e brutali (Il Minotauro di Borges).

Dice Bianconi che “la migliore canzone pop la puoi scrivere solo se conosci le migliori canzoni pop venute prima di te”: e infatti in L’Amore e la Violenza Vol.2 ritroviamo tanto synthpop, tante chitarre e tanto vintage, Patty Pravo, i Pulp e pure Nada, inframmezzati dalle ormai abituali atmosfere da horror movie un po’ Simonetti/Argento un po’ Carpenter (Violenza). Se a livello musicale le sonorità sono prevedibilmente seventies/eighties, Bianconi a Torino ha citato a sorpresa anche Bob Dylan, “per la sua capacità di scrivere canzoni d’amore da angolazioni tutte particolari“.

Non azzardiamo paragoni pericolosi e inutili, ma diciamo che ce l’hanno solo i grandi, la capacità di far cantare e ballare su versi dolorosi come un pugno allo stomaco.