Trionfo oscenamente pop degli anni ’70 (e ’80), un passo indietro e due avanti.

Il settimo album dei Baustelle arriva come una giornata luminosa in pieno inverno dopo un’estate passata a ricevere a mezzo Facebook, centellinate, immagini dalla lavorazione dell’album, che fossero esibizioni della strumentazione o più estemporanei scatti di cacce sottili, istantanee di vita o di morte; mai un vero climax, mai divulgando troppo. L’attesa è stata mitigata, bontà loro, solo dall’anticipazione di Lili Marleen, narrazione attraverso lampi e suggestioni di una Parigi capitale d’Occidente in preda al terrore, che è sì rimasta fuori dal disco ma già ne traccia certe coordinate. Amore e violenza, il primo come fuga dalla seconda, i protagonisti che si stringono al freddo sotto il crepitio bollente delle sventagliate di 7.62. Non manca neanche il ritornello furbo e paraculo come non capitava da un po’ (ci erano mancati questi Baustelle), intricando in rime e assonanze tedesco e francese, Apollinaire, Prévert, l’immancabile Houellebecq – sulla bocca di tutti due anni fa, nelle librerie di pochi.

Si sciolga subito ogni dubbio: per L’Amore E La Violenza il ricorso spudorato all’uso di citazioni è linfa vitale. C’è quasi un rifiuto a 360° di dirsi originali: il titolo intanto, l’estetica vintage, saffica e giocosa della copertina che sembra uno scatto inedito di Avere vent’anni.
Citazionismo spudorato, e questo in un album per il quale gli autori hanno parlato di libertà, libertà assoluta.
C’è coerenza nel parlare di libertà quando si pesca a mani basse dal passato? Dipende. Dipende se l’operazione è una mera copia o se il già visto, il già sentito vengono usati come trampolino di lancio; e per fortuna, nonostante la tentazione di adagiarsi sugli allori affiori a tratti, i Baustelle riescono, ancora, a splendere di luce propria. Ben venga la libertà di saccheggiare in allegria; si gode dell’apertura della strumentale Love che per una manciata di secondi riporta alla mente il seminale Preludio degli Osanna, salvo poi fuggire verso altri lidi, verso altre aperture, quasi a librarsi nell’aria dove invece gli archi di Preludio tagliavano padiglioni auricolari a suon di rasoiate. C’è Amanda Lear, un altro singolo perfetto con un video altrettanto eccelso, per la quale gli autori non nascondono la natura di

una pura storia di vita quotidiana, di Common People.

Bianconi, non sarai Jarvis Cocker… ma ci sei simpatico lo stesso. Storia, storiaccia o forse più semplicemente storiella di vita quotidiana, critica e sarcasmo diretti – con delicatezza e senza sprecarsi in giudizi – ad un amore finito male; lei vuole vivere alla giornata e lui la prende talmente sul serio che la tradisce con una troietta qualunque, talmente anonima che nemmeno si ricorda chi sia, cosa faccia. Colpa di lei, dice il narratore, del suo pessimismo da quattro soldi che ora lo fa ora sparare rancore ad alzo zero su chiunque gli capiti a tiro, in primis su se stesso, povero guitto. A livello musicale il lavoro dei synth è qualcosa di illegale e potrebbe reggere il gioco da solo, impossibile toglierselo dalla testa dopo il primo ascolto.
Su tutta l’opera si staglia l’ombra imponente di Franco Battiato che più passano gli anni e più diventa l’involontario maestro d’armi dei rappresentanti della scena indie italiana. Impossibile non sentire gli echi de La voce del padrone ne Il vangelo di Giovanni, al punto che le invettive – ironiche? – del testo ricalcano quelle di Centro di gravità permanente.

Io non ho più voglia di ascoltare
questa musica leggera,
nello sparire, nel mistero del colore delle cose.

Eccezionale il tiro di La musica sinfonica, divisa saggiamente tra le atmosfere di La moda del lento e improbabili quanto rinfrescanti fughe in stile disco music, d’un barocchismo eccessivo quanto attraente (sono l’unico che ha pensato immediatamente ai Rondò veneziano?): Rachele Bastreghi, qui al suo picco emotivo, si alterna fra languore e vivacità.
E a proposito di donne, tornano ad animare il palcoscenico le loro classiche protagoniste femminili, prede disilluse – ancor più che le controparti maschili – di un mondo che non concede davvero nulla. Come Betty, che si alimenta di virtualità e di relazioni masticate e poi sputate, in balia di un nichilismo esistenziale per il quale vivere bene o vivere male non cambia nulla. Betty per tutti i 5000 amici virtuali ma Elisabetta per chi trema per lei, per chi teme per questo ballare sul filo del rasoio che non può non terminare in tragedia – almeno in sogno – e che lascia aleggiare il dubbio sull’eventualità di un desiderio di suicidio. Perché una ragazza d’oggi può uccidersi?
O ancora Ragazzina con il suo vocabolario fiabesco, calato però nell’amara realtà; a passeggio fra i mostri, moderna Biancaneve attorniata non dai sette nani, paterni e protettivi, ma da milioni di maiali.

Non manca qualche caduta di stile: l’ottimo trittico finale viene preceduto da La vita, episodio non particolarmente ispirato, né a livello sonoro – poca atmosfera, poca forza, poco spirito – né a livello testuale. Parrebbe però promettere bene per una versione dal vivo, complice un riuscito inserimento a livello vocale di Rachele durante il cambio di tempo e ritmo.
Torna, nelle interviste e nei testi, un Bianconi insofferente all’epoca che vive. L’era dell’acquario, dietro una facciata musicale spensierata e, attenzione, vergognosamente ballabilissima cela il peso di un sofferto vivere immersi nella contemporaneità liquida. L’era dell’acquario, realizzazione compiuta delle magnifiche sorti et progressive nella quale sguazziamo tutti come pesciolini sprovveduti o al più, consapevoli dei bocconi amari che vengono serviti su un piatto d’argento; consapevoli, comunque mangiamo. Di nuovo, sembra essere l’amore l’unica ancora di salvezza in mezzo alle bombe, alla vita che sfugge tra le mani come sabbia, all’impalpabilità del reale.

Non aver paura,
non piangere mai,
lascia consumare il presente,
tutto sarà niente,
il compiuto è già passato,
nell’era dell’Acquario.

Torneremo a fare l’amore,
vedrai, a guardarci dritto negli occhi,
ci si abitua a tutto, alle bombe, alle esplosioni,
alla storia, al calendario.

Innegabile il legame che va dai solchi di Sussidiario illustrato della giovinezza a questo Sussidiario illustrato della maturità; l’operazione revival è riuscita? In larga parte sì, anche se qui non è tutto indimenticabile come forse lo era nel clamoroso album di debutto. C’è qualche debolezza, qualche cedimento strutturale che però non va a rovinare l’impalcatura generale di un album ben ragionato e ben realizzato; chi s’è sempre lamentato della graduale commercializzazione avrà di che fregarsi le mani ma poco male. Manca il trait d’union generale che rendeva intrigante Fantasma, manca la morbosa leggerezza adolescenziale di Sussidiario…, manca l’ispirazione totale dietro La malavita, quella propria di un gruppo forse al suo picco artistico.

Eppure c’è qualcosa di nuovo che non sfigura a paragone con il passato. Ben ritrovati Baustelle.

Tracce consigliate: Il vangelo di Giovanni, L’era dell’Acquario.