Gli Arcade Fire sono una delle poche band che negli ultimi 10 anni hanno unito in lungo e in largo la critica musicale e i music addicted di diverso orecchio: il 90% dell’opinione pubblica, se non il 100%, era unita nell’affermare che ci si trovava davanti ad una delle migliori band dei nostri tempi.

La band canadese è riuscita ad irrompere nel panorama musicale con un album incredibile, un capolavoro (Funeral, 2004). Dopo poco, la band aveva replicato con un lavoro ancora più profondo – nonostante fosse meno d’impatto e più complicato – pochi anni dopo (Neon Bible, 2007), e si era confermata con un terzo album, attraverso il quale cominciava ad avvicinarsi al grande pubblico (The Suburbs, 2010). Poi la trasformazione, sia nel mood che nell’approccio, con un disco ricercato e atipico per i trascorsi (Reflektor, 2013), e ora un nuovo tassello Everything Now, che rappresenta il momento più pop e sopratutto più di rottura nella storia della band.

La nuova fatica discografica è la solita opera di un certo grado che riesce ad accogliere nuovi consensi ed avvicinare a sé gli ascoltatori più profani, coloro i quali non magari non sanno nemmeno che rumore faccia una qualsiasi Crown Of Love, e che allo stesso tempo ha portato con sé più effetti collaterali sopratutto tra i fan di vecchia data. Ci piacerebbe partire da questo aspetto per poter valutare Everything Now in modo più completo possibile, accogliendo quelle che sono le critiche più dure con cui la band trova oggi a confrontarsi nell’opinione comune.

Gli Arcade Fire sono diventati i nuovi Coldplay – partiti bene con Parachutes e A Rush OF Blood To The Head e perduti poi nel marasma del pop e nelle produzioni di Avicii?

Gli Arcade Fire non hanno più idee e sono andati a ripescare gli Abba e i Talking Heads costruendo un album fondamentalmente brutto e inutile?

Era meglio fermarsi, a questo punto, al terzo album e lasciare un perfetto ricordo di sé?

Non c’è cosa peggiore che vedere gli Arcade Fire in una classifica Top 50 songs globale di spotify tra il reggaeton e Kygo?

Perché ‘ste band finiscono tutte col perdersi in ciò che più abbiamo sempre allontanato ascoltando le varie Power Out, Wake Up e Rebellion?

Lo snobismo musicale non è mai morto e mai morirà: lo abbiamo accolto, di recente, con altri due album molto importanti dalla forte impronta “pop”: RAM dei Daft Punk e AM degli Arctic Monkeys. Due album che con Everything Now hanno più di qualcosa in comune: produzioni esterne importanti, e anche ingombranti, un sound più mainstream, canzoni che arrivano di diritto nelle classifiche mondiali.

Nel nuovo album degli Arcade Fire le produzioni sono importanti, e forse anche ingombranti. L’impronta lasciata dai vari Thomas Bangalter (Daft Punk), Steve Mackey (bassista dei Pulp), Geoff Barrow (Portishead) affianco a Markus Dravs (già produttore di The Suburbs) hanno inciso molto sul piano delle sonorità e delle atmosfere, condendo il suono “totale” della band con richiami ’70s, disco, pop. Il risultato è stato un disco difficile da classificare in un genere particolare, ma sopratutto difficile da digerire sopratutto per i fan di vecchia data.

D’altronde, pezzi anonimi e inutile come Peter Pan e Chemistry difficilmente li avremmo mai immaginati in una futura e probabile discografia dei ragazzi di Montréal. Come tutte le cose brutte, anche questi due vuoti finiscono, e lasciano spazio a Infinite Content, un brano dalle due facce che ha un grande compito: dividere le due facce che anche il disco presenta.

La prima parte, tra il singolone Everything Now, Signs Of Life e Creature Comfort (i primi singoli con cui la band ha anticipato il disco), è un chiaro segnale di pop. Un pop profondo, perché il pop può sicuramente essere qualcosa di diverso dai soliti prodotti confezionati ed insignificanti. Gli Arcade Fire qui suonano di synth, di ritmi alti, si sentono gli Abba, gli LCD Soundsystem e i Talking Heads, e ci fanno viaggiare alla velocità della luce in un uragano di colori, che evolvono direttamente dal loro precedente lavoro, Reflektor.

L’outro di Infinite Content, Infinite_Content, ci presenta un ultimo appiglio di passato per gli Arcade Fire. Electric Blue, un richiamo réginiano alla celeberrima Sprawl II, con la tripletta Good God Damn, Put Your Money On Me e We Don’t Deserve Love sono quanto di più piacevole può scorrere da Everything Now, con atmosfere in diretta contrapposizione con quelle della prima parte del disco sopra citata.

Una valutazione generale del disco non può prescindere dal percorso effettuato dalla band canadese nella sua intera carriera, sia in senso positivo che in senso più negativo. Se è vero che Everything Now potrebbe arrossire se paragonato in senso assoluto a un album come Funeral, è anche vero che gli Arcade Fire hanno scelto di evolvere di album in album, e di provare sempre a misurarsi con qualcosa che potesse spingerli un po’ più in là. Le continue ricerche nei temi da proporre, nelle sonorità (gli innumerevoli strumenti coinvolti nelle produzioni, moderni e non), nello stile e nella resa live hanno portato Win Butler e soci ad essere ciò che oggi sono, senza segreti né alcun bisogno di nascondersi.

Per forza di cose, per merito e per capacità di gran lunga superiori ai tanti protagonisti della musica di oggi, gli Arcade Fire si sono trovati a confrontarsi col grande pubblico, sul più grande palcoscenico possibile, e hanno scelto di farlo a modo loro, regalando un album che riuscisse a reggere il passo senza mai perdere di vista ciò che sono sempre stati.

Gli Arcade Fire avrebbero potuto passare la carriera a produrre inni barocchi – ci hanno dimostrato, d’altro canto, di cosa possono esser capaci – ma il percorso artistico li ha portati dove meritano di stare oggi.

Sarà pure pop, che a molti fa storcere il naso (spesso con giudizi affrettati e non giustificati), ma il loro pop è più bello degli altri.

Tracce consigliate: Everything Now, Put Your Money On Me