I’m repping for the longest cycle, mmm
My uncles had to pay the cost, mmm
My sister used to sing to Whitney, mmm
My mama caught the gambling bug, mmm
We came up in a lonely castle, mmm
My papa was behind them bars, mmm
We never had to want for nothing,mmm
Said all we ever need is love, mmm

Si presenta così Anderson .Paak, nella sua meravigliosa opener The Bird, ritagliando, in poche frasi, il suo quadretto familiare non propriamente da spot della Mulino Bianco.
Per capire a pieno il personaggio dobbiamo necessariamente accennare la sua storia: nato nella rurale Oxnard, è il terzo figlio di una coppia composta da una madre, sudcoerana, amante del gioco d’azzardo e un padre, afroamericano, finito dietro le sbarre quando il ragazzo era ancora bambino. Sono dunque risultate decisive altre figure per la sua crescita artistisca:  le sorelle, che gli hanno passato la passione per la black music e, sopratutto,  lo zio, che gli ha permesso di perseguire questa sua passione.
Oltre a studiare canto, il nostro amico, si forma anche come batterista e inevitabilmente si avvicina anche al rock. La storia finisce come nelle più classiche scenggiature Hollywoodiane: dopo varie peripezie, EP e album autoprodotti, viene notato da Dr. Dre, che lo fa partecipare a ben 6 tracce nel suo recente album, Compton.
Beh chiaramente una volta che ti nota il dottore, il gioco è fatto. E arriviamo ai giorni nostri con l’uscita di Malibu.
È un disco molto lungo, ben 16 tracce (1 solo interlude) che potrebbe spaventare da fuori, ma appunto, solo da fuori: una volta immersi non se ne esce. Sono subito evidenti le influenze di tre grandi artisti contemporanei, come Frank Ocean, Kendrick Lamar e D’Angelo, ma non solo, troviamo citazioni dei Beatles e di classici hip-hop.
C’è poco da dire ad un inizio come quello che ci regala  la sopracitata The Bird: semplicemente, ti mette in pace con il mondo. Non che col seguito ci vada troppo peggio:  la romantica ed elegante Heart Don’t Stand a Change, in cui ci presenta la sua amata e The Waters, in cui sono narrate le peripezie verso il successo, sono altri due pezzi importanti.  Knees hit the floor, screams to the Lord/Why they had to take my ma?/(Momma can you carry me?)/To the early morn/(Momma can you carry me?)/To the early morning/(Momma can you carry me?) un verso che sembra quasi una preghiera gospel, situato a metà di The Season/Carry Me, brano che inizialmente ricorda The Weeknd, salvo poi  mutare, cambiando rotta e strizzando l’occhio all’ultimo lavoro di K-Dot ( che viene pure citato nella canzone) . La vintage e estiva Put Me Trhu precede il pezzo più funk del lotto, Am I Wrong, con la gentile collaborazione di Schoolboy Q. Le tracce scorrono ma il livello qualitativo rimane costante, nonostante le mille sfaccettature: Room In Here, singolo con ospite The Game, è delicatamente catchy, (con un loop di piano che difficilmente vi toglierete dalla testa) mentre, ad esempio, Come Down, dal beat sincopato, è funky e cruda, tanto che potrebbe esser uscita da un vecchio album di Snoop Dogg.
Ogni singola canzone riesce a disegnare un’atmosfera talmente ben delineata da avere ciascuna una forte potenza evocativa. Davvero azzeccata la scelta della copertina, che sembra quasi un dipinto surrealista.
Insomma un potenziale album dell’anno subito a gennaio, frutto di un’amalgama tra produzioni eccelse, personalità da vendere e una voce, quella di Anderson, versatile e delicata.
Nessuno probabilmente si aspettava una bomba del genere e invece Anderson .Paak si prende la scena, facendoci aspettare con meno ansia Kanye e Frank.

Tracce consigliate: The Bird, The Season/Carry Me, Room In Here